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Questo articolo è stato pubblicato il 13 novembre 2014 alle ore 08:01.
L'ultima modifica è del 13 novembre 2014 alle ore 08:35.

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Due vittorie, due pari, due sconfitte, tra cui la prima volta con una finlandese: il bilancio della settimana calcistica (la scorsa) dell'Italia in Europa conferma la realtà di un'industria che un tempo dominava e oggi è ridotta a gestire il quarto, quinto campionato principale. Le maglie senza sponsor di tre delle 18 squadre di Serie A (Lazio, Palermo, Roma) riflettono lo spettacolo offerto sui campi e fuori dagli stadi, oltre che lo stato pietoso di questi ultimi.

La crisi strutturale viene da lontano e i club hanno risposto con la nomina in Federazione di un anziano e discusso routier dei prati del calcio dilettantistico. Una scelta coerente con proprietari che trattano un miliardario indonesiano come il domestico filippino e chiamano samurai i suoi manager.
Altrove le risorse non solo non mancano, ma continuano ad arrivare, proprio dall'Asia. Il Real Madrid ha appena concluso un accordo strategico con International Petroleum Investment Co (IPIC) di Abu Dhabi. L'importo è imprecisato, ma dovrebbe consentire ai merengues di finanziare la ristrutturazione del Bernabéu - un progetto da 400 milioni di euro degli architetti tedeschi GMP - e di espandere la rete di scuole del club di Chamartín. Un altro emirato, Dubai, possiede l'aerolinea Emirates che sponsorizza il Real, pagando - si dice - 30 milioni l'anno. È più del doppio di quanto chiede la Roma per il titolo "main sponsor" (senza riuscire a concludere) e poco meno del doppio di quanto costa sponsorizzare la Serie A. Nel 2011-12 il Real è stato il primo club a sorpassare la soglia del mezzo miliardo di fatturato, nel 2013-14 dovrebbe arrivare a 604 milioni.

Sempre la settimana scorsa, Peter Lim ha concluso l'acquisto del 70% del Valencia. L'ottava fortuna di Singapore ha investito 420 milioni, metà per coprire i debiti del club e metà per costruire un nuovo stadio e comprare nuovi giocatori. Sarà il terzo proprietario straniero della Liga, dopo lo sceicco qatarino Abdullah al-Thani del Malaga e Giampaolo Pozzo (che possiede anche Udinese e Watford) del Granada. In seconda divisione spagnola c'è il Sabadell, del giapponese Keisuke Sakamoto, e l'Alcorcón, del belga Roland Duchatelet, mentre in Championship più della metà dei club sono nelle mani di investitori stranieri, soprattutto asiatici (Hong Kong, India, Tailandia, Malesia e Medio Oriente) ma c'è anche … Duchatelet (Charlton)! Ma è la Premier League inglese a suscitare i maggiori entusiasmi. Il pioniere è stato Roman Abramovich (anche se possiede solo metà delle azioni del Chelsea) e più della metà delle 20 équipes ha padroni stranieri: 7 americani, due arabi e un altro russo.

Un calcio triste, che non è seguito all'estero, non attrae sponsor, tantomeno marchi globali. In Primera División ci sono 7 club con loghi asiatici - Barcellona, Siviglia, Atlético Madrid, Villarreal, Levante, Real Sociedad e Rayo Vallecano - mentre Huawei è uno dei principali patrocinatori della Liga. Il Sunderland di Giaccherini e Mannone ha i sudafricani di Bidvest, il QPR i malesi di Air Asia. In Italia i club hanno sponsor globali quando glieli portano in dote i proprietari (Jeep alla Juve, Pirelli - fino a quando? - all'Inter), altrimenti si va in Europa con acque minerali e salumi sulla maglietta.
L'internazionalizzazione non è però una panacea. Con le sue stelle (Cazorla, Toulalan o Van Nistelrooy), il Malaga ha giocato i quarti della Champions nel 2011, ma poi Al-Thani si è stancato di essere trattato "senza rispetto" e a luglio 2014 ha annunciato che cerca un acquirente. Laura Georges, ultra-titolata capitana del PSG, se l'è presa col suo presidente, Nasser Al-Khelaïfi, che non si fa mai vedere al calcio femminile. Molti club sono in difficoltà finanziarie e i campionati sono diventati più prevedibili (il che non ha impedito al Barcellona di perdere in casa col Celta, che da 25 anni ha lo stesso sponsor, la Citroën che a Vigo ha una fabbrica).

Soprattutto, l'apertura ai capitali internazionali non è l'unico modello di capitalismo pallonaro. In Bundesliga, dal 1999 nessun socio, azionista o impresa può possedere più del 50% delle azioni di un club. Fanno eccezione, solo perché la regola ha 15 anni, Bayer Leverkusen e Wolfsburg, mentre Adidas e Audi insieme hanno il 10% del Bayern. Qualche anno fa è stata votata l'abolizione del tetto e dei 36 club delle due leghe principali 32 si sono opposti. All'origine della proposta, Martin Kind, presidente dell'Hanover 96, si è forse consolato con l'arrivo di Turkish Airlines come sponsor del team. Nel frattempo stabilità, equa distribuzione degli introiti e prossimità ai fan garantiscono il successo della Bundesliga - gli stadi sono moderni e pieni, i club investono nella formazione e avanzano nelle competizioni continentali, i giocatori tedeschi rimangono in patria senza che la Manschaft ne soffra. E i biglietti hanno prezzi ragionevoli che consentono agli spettatori di arrivare in famiglia e con i trasporti pubblici.
Quello che è sicuro è che il calcio è una pratica troppo importante per lasciarla in mano a dilettanti. Pensiamo a Khadem Abdullah al-Qubaisi, che ha negoziato l'accordo tra IPIC e Real Madrid: presiede CEPSA e Borealis, oltre che Aabar Investments, ed è stato vicepresidente di UniCredit, prima che i suoi molteplici impegni lo spingessero a lasciare l'incarico nel 2012. Magari nel nostro calcio verrebbe trattato da "marocchino".

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