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Questo articolo è stato pubblicato il 13 novembre 2014 alle ore 08:02.
L'ultima modifica è del 13 novembre 2014 alle ore 08:31.

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Nel bene e nel male, l'andamento del mercato petrolifero ha sempre segnato le vicende politiche russe negli ultimi 40 anni. Negli anni 70, l'esplosione dei prezzi del greggio e del gas portò un relativo benessere nell'Unione Sovietica, inaugurando una breve stagione che fu definita "aurea" nell'ultima fase del regime Breznev.

Il collasso dell'oro nero nel 1986 contribuì a minare la stabilità di Gorbaciov, facendo crescere il malcontento interno a dispetto delle aperture (Glasnost e Perestroika) promosse da Gorbaciov stesso e determinando infine il fallimento della sua personale esperienza politica.
I bassi prezzi degli anni 90 mantennero Boris Eltsin in una situazione di permanente instabilità, costringendo il suo governo a mosse disperate (come la privatizzazione selvaggia dei beni dello stato) fino al collasso del '98, quando la Russia rischiò il default. Poi i prezzi del petrolio ripresero a crescere poco dopo la nomina (agosto 1999) di un nuovo primo ministro sconosciuto in quegli anni, da molti ritenuto solo l'ennesimo esperimento di Eltsin destinato a fallire. Era Vladimir Putin, poi eletto presidente (marzo 2000) all'inizio del decennio che avrebbe visto i prezzi del petrolio volare ai massimi tanto da consegnare al nuovo leader anni di entrate miliardarie, grazie alle quali Putin ha potuto costruire un innegabile consenso interno, riconquistare la stabilità perduta e affermare il ruolo della nuova Russia. Ora la combinazione di crisi ucraina, sanzioni, caduta dei prezzi del greggio apre scenari preoccupanti per Putin, la Russia e l'ordine mondiale.

L'economia russa è rimasta troppo dipendente da petrolio e gas - oltre il 50 per cento delle entrate statali russe nel 2013 - e da altre materie prime, senza sviluppare un'adeguata industria di beni di largo consumo. Così oggi ogni calo di un dollaro del prezzo del greggio implica una perdita di 1,7 miliardi di dollari su base annua per il bilancio di Mosca. Ciò significa che, se i prezzi rimanessero quelli di adesso, Mosca disporrebbe di quasi 50 miliardi di dollari in meno nel 2015, a cui si aggiungono altri 10-15 miliardi dovuti alle rinegoziazioni dei contratti del gas, su un budget di entrate (base 2014) di 400 miliardi. Senza contare le sanzioni internazionali.
Negli ultimi mesi, il governo centrale ha già cominciato a tagliare servizi che toccano la carne viva dei cittadini, riducendo la spesa sanitaria, quella per l'educazione e alcuni sussidi essenziali per le classi più povere. Intanto, la rapida caduta del rublo sta tagliando drasticamente il potere d'acquisto di gran parte della popolazione russa, minacciando di spingere in alto l'inflazione in breve tempo.
Complice la crisi ucraina, la crescita di malcontento tra i russi potrebbe spingere Putin a un atteggiamento ancor più aggressivo, sia in patria sia all'estero, nel tentativo di sedare sul nascere il malessere dei suoi concittadini e attribuire a nemici esterni i guai della Russia, così da tenere vivo il consenso. Già oggi molti russi attribuiscono all'Occidente buona parte delle colpe di quanto sta accadendo, soprattutto a causa della reazione statunitense ed europea alla crisi con l'Ucraina. Lo stesso Mikhail Gorbaciov, dopo essersi schierato apertamente con Putin, di recente (a Berlino, l'8 novembre) ha avvertito il mondo che una nuova Guerra fredda potrebbe essere alle porte, proprio a causa degli errori fatti dall'Occidente nei riguardi della Russia.

La vittoria dei repubblicani nelle elezioni di mid-term americane non fa che peggiorare le cose. Per quanto il presidente Barack Obama abbia fatto la voce grossa contro Mosca, una larga fetta del partito repubblicano vorrebbe spingersi oltre, considerando Vladimir Putin un dittatore da sempre ostile agli interessi statunitensi nel mondo. L'idea di trattare Putin come un potenziale alleato utile in molte parti del mondo (a partire dal Medio Oriente), pur cara a molti sostenitori bipartisan della realpolitik, è rigettata con sdegno dal ventre del Great Old Party (i repubblicani, nda). E nemmeno Hillary Clinton, probabile candidata democratica alle prossime elezioni presidenziali (2016), sembra propendere per la realpolitik.
Difficile dire se una delle parti in gioco possa tirar fuori dal cappello a cilindro un'idea e una prospettiva nuove, capaci di evitare un destino che - come nelle tragedie greche - sembra già scritto per protagonisti e comparse (come l'Europa) alle quali non resta che muoversi, in modo ineluttabile, verso il suo compimento.

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