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Questo articolo è stato pubblicato il 14 novembre 2014 alle ore 06:41.
L'ultima modifica è del 14 novembre 2014 alle ore 12:47.

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Dottor Minucci, lei ritiene che i 300 miliardi di investimenti promessi all'Europa dal piano Juncker possano comportare risvolti concreti anche per il rilancio degli investimenti in Italia?
Sì. Una scelta decisa a sostegno di nuovi investimenti darebbe maggiore forza a interventi in questa direzione anche in Italia: come sappiamo, il nostro paese ha un disperato bisogno di un rilancio degli investimenti privati che si materializzano davvero solo quando si riesce a garantire una prospettiva di lungo termine.

Come entrano le assicurazioni nella costruzione di questa prospettiva?
Le assicurazioni sono per definizione investitori di lungo periodo. È dunque fondamentale che le nuove regole europee e italiane non scoraggino gli investimenti in Infrastrutture e nelle cartolarizzazioni, che, in linea con le recenti decisioni della Bce, sono state individuate come uno dei canali privilegiati per fare affluire nuove risorse alle piccole e medie imprese. Più in generale, oggi c'è un interesse specifico delle assicurazioni a diversificare il proprio attivo investendo nell'economia reale. Le ricordo che le assicurazioni in Italia hanno un portafoglio di attività per quasi 600 miliardi e in Europa per oltre 8.000 miliardi. Quindi possono a pieno titolo rappresentare il perno di un rilancio economico. Però serve qualcosa che favorisca questa entrata in gioco. Per esempio, a livello europeo sarebbe essenziale che le misure di dettaglio della direttiva Solvency II, che entrerà in vigore nel 2016, tenessero conto del fatto che le infrastrutture sono un elemento chiave del rilancio economico e riducesse, quindi, il forte assorbimento di capitale attualmente stabilito per le compagnie che fanno questo tipo di investimenti.

In Italia esistono già norme che danno alle assicurazioni la possibilità di investire nell'economia reale...
Si certo, è stato dapprima permesso l'investimento in mini-bond e più di recente, è stata prevista la possibilità di investire fino al 5 per cento degli attivi in forme dirette di finanziamento alle piccole e medie imprese. Ma il punto centrale è che noi dobbiamo diminuire la rischiosità di questi investimenti, perché le assicurazioni hanno come interlocutori dei risparmiatori che chiedono sicurezza e prestazioni garantite.

E come si fa a ridurre il rischio?
In primo luogo aumentando la copertura di garanzia: sarebbe opportuno che a queste operazioni di finanziamento diretto alle imprese partecipassero delle istituzioni, anche di natura pubblica, in grado di offrire garanzie a fronte di una remunerazione di mercato. Se si crede in questo tipo di strumenti, occorrerebbe attribuirgli un incentivo fiscale: non una tassazione al 26%, dunque, ma un'aliquota al 12,50, come per i titoli di stato, se l'investimento è mantenuto per almeno 5 anni.

La legge di stabilità, tuttavia, ha appena fatto scelte diverse in campo fiscale, per i fondi pensione.
Già e noi lo abbiamo puntualmente segnalato. Anche in questo caso, il confronto con l'Europa può aiutare a mettere a fuoco i problemi: in tutto il resto del continente la previdenza integrativa viene tassata secondo uno schema che lascia esente fiscalmente sia il versamento dei contributi che i rendimenti realizzati in fase di accumulazione e tassa solo alla fine le prestazioni pensionistiche. In Italia, al contrario, in primo luogo già da tempo la tassazione non agisce solo sulla fase finale ma si applica anche sul risultato di gestione maturato su base annuale. Inoltre, quest'anno l'aliquota è stata portata dall'11,5% al 20%. Se a ciò aggiungiamo la scelta di accordare la possibilità di monetizzare una parte del tfr, è come se nell'immaginario delle persone si volesse insinuare un dubbio sull'assoluta necessità di pensare per tempo al proprio futuro.

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