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Questo articolo è stato pubblicato il 17 novembre 2014 alle ore 08:43.
L'ultima modifica è del 17 novembre 2014 alle ore 09:38.

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Le risorse da distribuire sono sempre meno. E gli anni della vecchiaia non saranno così felici come ci si poteva aspettare nel 1970 o nel 1980. Quindi è indispensabile allungare – dai canonici 65 almeno fino ai 70-75 anni – i tempi del pensionamento. La richiesta viene da tutti i gestori dei sistemi pensionistici, pubblici e privati.

Per gli Stati occidentali, alle prese con disavanzi pubblici sempre più ingestibili, è una vera questione di sopravvivenza del welfare. Ma anche i fondi pensione privati (di categoria o individuali) hanno le loro gatte da pelare. I baby boomers, i nati fra il 1946 e il 1964, si stanno ritirando dalla vita lavorativa – in numero crescente fino al 2020 e anni seguenti, quando verrà a “maturazione pensionsitica” il picco delle nascite attorno al 1955 – e questo non fa dormire sonni tranquilli ai gestori della previdenza privata.
Ma andiamo per ordine. Se ragioniamo sulla crescita del capitale (azioni), non si può dimenticare che viviamo in una realtà drogata. È vero che negli ultimi anni le principali Borse mondiali (quella americana in primis) hanno inanellato nuovi record storici, ma è anche vero che ciò è avvenuto per mancanza di alternative alla liquidità immessa a piene mani sui mercati dalle Banche centrali. Nei prossimi trimestri e anni, con la fine delle politiche di Quantitative easing, è facile immaginare che il valore delle azioni sarà ridimensionato – riavvicinandosi alla realtà dei profitti – e quindi il capitale dei fondi pensione (la ricchezza accumulata per chi smetterà di lavorare in futuro) avrà un netto calo. Se invece pensiamo alle cedole obbligazionarie, necessarie per pagare i trattamenti in essere, l'opinione comune è che i tassi (quindi i rendimenti dei bond) resteranno bassi anche negli anni a venire.

In più c'è un altro fatto da considerare, sottolinea uno studio di Hsbc firmato da Karen Ward: i baby boomers hanno vissuto il loro successo lavorativo in un periodo fortemente consumistico – i più fortunati negli anni 80 – con l'idea che dopotutto non c'era bisogno di risparmiare granchè, perché la crescita dei mercati avrebbe comunque creato la ricchezza necessaria per la vecchiaia. «Tuttavia la trasformazione dei guadagni virtuali (capital gain) in ricchezza reale (soldi da spendere) diventa una sfida dall'esito difficile, quando tutti i baby boomers cercano di incassare – spiega la ricerca di Hsbc –. I risparmi di chi va in pensione in questi anni erano stati investiti in asset borsistici legati ai programmi previdenziali negli anni 80 e 90, quando l'aumento della produttività economica e dei profitti aziendali non erano certo vissuti come un problema. Neanche in prospettiva, perché i salari reali delle generazioni più giovani – era l'idea – sarebbero cresciuti e in questo modo sarebbero state pagate le pensioni dei più anziani».

Ma non è andata così. «Adesso, ormai da otto anni, l'economia globale arranca e le prospettive dei guadagni cedolari – sia quelle da dividendo azionario che quelle da rendimento obbligazionario – sono molto grigie. E allora la domanda è se saranno i risparmiatori dei Paesi emergenti, gli unici dove in questa fase storica il Pil sta crescendo in modo sostenuto, a sostenere gli asset occidentali e quindi le pensioni dei baby boomers», aggiunge nella sua ricerca Hsbc. Se il problema si fosse posto dieci o più anni fa, la risposta sarebbe stata probabilmente positiva. Nei Paesi in via di sviluppo non vi è certo carenza di risparmiatori. Nel 2030, secondo le stime, saranno oltre 330 milioni, lo stesso numero di quanti ve ne sono ora nelle principali nazioni occidentali. Ma le popolazioni delle nazioni emergenti – anche grazie alla buona condizione dei budget pubblici e alle riforme messe in campo per migliorare i mercati finanziari locali – sono sempre più propensi a investire sul mercato domestico. E questo resta senz'altro un problema per noi, dato che da lì non verrà un sostegno ai nostri mercati. In più c'è un'aggravante, che ci riguarda da vicino: i figli del baby boom non hanno risparmiato abbastanza – e se lo hanno fatto, lo hanno fatto in modo sbagliato – per cui probabilmente nei prossimi anni si troveranno costretti a vendere attività, deprimendo ulteriormente i mercati».

«Il baby boom successivo alla Seconda guerra mondiale – spiega David Lafferty, Chief market strategist di Natixis Gam – ha determinato anche un boom dei consumi a livello globale. I 76 milioni di cittadini statunitensi nati tra il 1946 e il 1964, sommati al numero altrettanto elevato di nuovi nati nel resto del mondo, hanno vissuto gli anni migliori a livello di entrate e consumi dagli anni Ottanta ai primi anni 2000. A quel tempo, nel mondo sviluppato, i risparmi a fini pensionistici divennero il primo obiettivo di investimento. Nella “fase dell'accumulo” i baby boomers fecero affluire le risorse in tali conti di nuova istituzione e supportarono la rapida espansione dei fondi comuni. Poiché tali risparmi erano destinati alla pensione, gran parte di questi flussi confluirono sui mercati azionari. Oggi, con l'aumento degli ultra 65enni al ritmo di circa 10mila americani al giorno, la stessa generazione si trova a dover affrontare le esigenze della “fase distributiva”. Abbandonata la fase primaria dell'accumulo, il nuovo obiettivo dei boomers è quello di individuare asset che generino una rendita, e questa tendenza avrà importanti effetti sui mercati di capitale».
È probabile che la domanda di reddito ponga una pressione rialzista sui prezzi degli strumenti obbligazionari e una pressione ribassista su quelle rendite che sono già a livelli storicamente bassi.

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