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Questo articolo è stato pubblicato il 17 novembre 2014 alle ore 08:42.
L'ultima modifica è del 17 novembre 2014 alle ore 09:41.

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La Garanzia Giovani è un progetto di politica attiva del lavoro che farà parlare di sé per molti anni. Purtroppo, dai segnali che arrivano in questi mesi, le discussioni non saranno incentrate sui risultati positivi conseguiti ma, piuttosto, sulle ragioni che hanno portato a un nuovo fallimento della nostra organizzazione dei servizi per l'impiego.
Per inquadrare correttamente la questione, dobbiamo prima di tutto ricordare che cosa vuol dire «Garanzia giovani».

Con questa espressione si fa riferimento a un piano, finanziato dall'Unione Europea, che ha l'obiettivo di aiutare i giovani che non sono impegnati in un'attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo (i cosiddetti Neet, Not in education, employment or training). L'Unione Europea mette a disposizione ingenti risorse - per l'Italia 1,5 miliardi di euro - da utilizzare in politiche attive di orientamento, istruzione e formazione e inserimento al lavoro, destinate a loro.
Questa è la teoria, molto affascinante, che si legge nei documenti comunitari e nazionali che fanno da cornice al progetto. La pratica ci dice, purtroppo, ben altro.
Ci dice che la Garanzia Giovani non sta funzionando, nonostante la mole poderosa di risorse disponibili. I giovani iscritti al programma sono 294.677, ma, a sei mesi dall'avvio (il 1° maggio scorso), soltanto 89.979 (il 30%) sono stati presi in carico e «profilati».
Le opportunità di lavoro complessive pubblicate sul sito ufficiale dall'inizio del progetto sono 22.535. Si tratta di offerte poco chiare e qualitativamente molto modeste.
Sul versante dei giovani, le adesioni sono molto ridotte, e chi si iscrive al portale spesso lamenta di non ricevere le prestazioni promesse.

Questo fallimento era, purtroppo, abbastanza annunciato, perché il sistema italiano dei servizi per l'impiego soffre di carenze strutturali che non possono essere risolte con un aumento delle risorse, ma che richiedono un cambio del modello utilizzato.
La Garanzia Giovani non funziona perché è attuata dentro un sistema dove manca quello che gli esperti di organizzazione chiamano «il padrone del processo». Con la riforma del Titolo V della Costituzione sono state distribuite su tanti enti diversi le competenze sul lavoro, con il risultato che manca un soggetto capace di gestire e coordinare le politiche attive del lavoro per tutto il territorio nazionale. Il Jobs Act interviene sul tema, prevedendo la costituzione dell'agenzia nazionale per il lavoro. L'idea è buona, perché è assolutamente necessario superare questa assurda frammentazione.

Un altro problema che ha indebolito l'efficacia della Garanzia Giovani è il tema irrisolto della collaborazione tra pubblico e privato. Ogni Regione ha definito regole diverse per la partecipazione dei privati, con risultati a volte davvero anacronistici. In tutti i paesi europei più efficienti, ci si preoccupa di regolare il servizio (questo sì, pubblico), e questo può essere erogato da chiunque ne è capace (pubblico o privato che sia), secondo un meccanismo che lega le risorse ai risultati. Chi ha seguito questo approccio (ad esempio la Regione Lombardia) ha avuto, non a caso, i risultati migliori nell'attuazione della Garanzia Giovani.
Anche il Jobs Act va in questa direzione, ma le idee contenute nella legge delega dovranno essere sviluppate correttamente nei decreti attuativi per poter funzionare davvero.
In conclusione, la Garanzia Giovani ha prodotto l'unico risultato che un sistema mal costruito poteva produrre. È auspicabile che questa esperienza serva da insegnamento, e faccia capire che per far funzionare i servizi per l'impiego non bisogna solo aumentare le risorse, ma anche avere qualche idea nuova.

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