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Questo articolo è stato pubblicato il 19 novembre 2014 alle ore 07:16.
L'ultima modifica è del 19 novembre 2014 alle ore 09:14.

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«Wait and see»: aspettiamo e vediamo. Da pochi giorni è iniziato il semestre che porterà all'elezione del nuovo Parlamento britannico il 7 maggio 2015. Mentre i toni del dibattito politico si accendono, imprese e investitori cercano di capire che cosa potrà succedere, chi vincerà tra David Cameron ed Ed Milliband e che conseguenze la vittoria dell'uno o dell'altro potrà avere per l'economia del paese.

Persino il mercato immobiliare londinese, esuberante amplificatore del sentiment nel e sul Regno Unito, si è messo in stand-by relativo.
Alcuni dati sull'economia del paese sono indubbiamente incoraggianti. Il Pil nel terzo trimestre del 2014 è cresciuto dello 0,7%, con un andamento tendenziale annuale previsto sopra al 2%. Tenendo conto degli effetti di stagionalità, il tasso di disoccupazione a fine estate è sceso al 6%. Sia in termini di Pil sia di occupati, il Regno Unito sta finalmente tornando ai livelli pre-crisi. E qui cominciano le perplessità che spiegano il wait and see. In quasi tutti gli altri paesi del G7 il Pil ha già riguadagnato i livelli pre-crisi da un qulache tempo: in Canada, Francia, Germania e Stati Uniti è successo tra il 2010 e il 2012; in Giappone nel 2014. Un'eccezione resta purtroppo l'Italia, il cui Pil, dopo una promettente seppur timida ripresa nel 2011, si è di nuovo immalinconito su livelli al di sotto di quelli del 2008. L'altra eccezione è il Regno Unito, che non ha ancora riconquistato la situazione del 2008.

Con quella del Bel Paese, l'economia britannica condivide un altro non invidiabile aspetto: stagnante produttività. L'ultimo dato disponibile per il 2013 dà una produttività del lavoro oltremanica invariata rispetto al 2007 e di circa il 16% inferiore a quella che sarebbe potuta essere senza la crisi. Per gli altri paesi del G7 questo scarto è valutato intorno al 6%. È vero che, diversamente dall'Italia, il Pil del Regno Unito sta crescendo con un vigore raro di questi tempi in questa parte del mondo, ma è anche vero che tale crescita è trainata essenzialmente da maggiore occupazione piuttosto che da crescente produttività. Va benissimo nel breve periodo (magari succedesse da noi), ma una crescita sostenibile su un orizzonte di tempo più prolungato non può prescindere da una crescente produttività. Questo è il problema che il futuro primo ministro dovrà risolvere, perché nel lungo periodo maggiore produttività porterebbe non solo maggiore occupazione e maggiore reddito complessivo, ma anche quei salari reali più alti che chi ha a cuore una più equa distribuzione di tale reddito vorrebbe vedere.
Negli ultimi mesi Cameron ha invece preferito parlare soprattutto d'altro, secondo molti critici avvitandosi in una spesso incoerente e di fatto sterile polemica ad ampio raggio con l'Unione europea, nella vana speranza di dirottare verso il partito conservatore l'elettorato populista del movimento indipendentista Ukip. Se a maggio vincerà, Cameron ha promesso di indire nel 2017 un referendum sull'uscita del Regno Unito dall'Ue. L'accusa dei suoi critici è di aver creato, senza alcuna vera necessità, uno scenario dalle conseguenze imponderabili causando all'economia britannica un'incertezza aggiuntiva che in questo momento di ripresa non può permettersi.

È di questi giorni l'intervento di Cameron alla conferenza annuale della CBI, la Confindustria britannica. Il primo ministro ha sfruttato l'occasione per ribattere all'accusa che la sua guerriglia contro Bruxelles sta creando inutile incertezza al paese: «Il futuro della Gran Bretagna in Europa sta a cuore al paese e al momento le cose non stanno funzionando come dovrebbero ed è per questo che occorre fare dei cambiamenti». Quali cambiamenti? Nessuna indicazione precisa.
Mentre Cameron parlava, le espressioni dei dirigenti confindustriali lasciavano infatti trasparire una certa perplessità. Secondo la CBI, quattro imprese britanniche su cinque sono a favore della permanenza nell'Ue. La stessa CBI stima il beneficio netto dell'UE per il Regno Unito dal 4 al 5 per cento del Pil. Aprendo la conferenza, il suo presidente Sir Mike Rake ha detto chiaramente che per gli industriali, al di là di alcuni aggiustamenti desiderabili, restare nell'Ue è ampiamente nell'interesse del Regno Unito: «Per aver successo in futuro, abbiamo bisogno del pragmatismo e del buon senso per i quali la Gran Bretagna è famosa. Abbiamo anche bisogno del coraggio e della fiducia in noi stessi necessari per essere aperti al mondo in modo da essere all'altezza delle sue sfide e struttarne le opportunità».

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