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Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2014 alle ore 09:15.
L'ultima modifica è del 22 novembre 2014 alle ore 16:19.

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Nella lotta internazionale all'evasione la Svizzera è in una morsa: stretta tra Ue e Usa, i quali sono considerati la locomotiva del G20 e dell'Ocse. I principali istituti scudocrociati, tra cui Ubs e Crédit Suisse, i due giganti, sono stati colti in flagrante nell'aiutare contribuenti americani ad evadere le imposte. Gli Stati Uniti considerano l'evasione un reato grave, che colpiscono con accanimento, anche se poi tollerano che il Delaware e il Wyoming consentano l'apertura di un conto senza alcun riferimento al beneficiario. Così hanno messo nel mirino quindici banche elvetiche con un contenzioso legale che ha visto fioccare multe miliardarie e che ha fatto emergere lo splendido isolamento politico della Confederazione, accentuatosi dopo la grande crisi del 2008. Per uscire dalla controversia, il Crédit Suisse ha dovuto pagare alla giustizia statunitense 2,3 miliardi di dollari, Ubs se l'è cavata con meno, 780 milioni, mentre Wegelin & Co. ci ha rimesso 80 milioni, ma ha accettato un accordo extragiudiziale che ne ha sancito la chiusura ed il conferimento di dipendenti, attività e passività (tranne le Us person) alla banca Notenstein. Dice ancora Bernasconi: «Negli Usa il 29 agosto 2013 si sono autodenunciate 106 banche svizzere che ora sono in spasmodica attesa di sapere che sorte le aspetta».

È in questo contesto internazionale che Berna ha deciso di sterzare politicamente. Spiega una fonte giudiziaria: «I primi passi risalgono al 2008, alla convenzione sull'obbligo di diligenza delle banche, un accordo privatistico che ha finito con l'avere valore di norma e che all'articolo 8 parla espressamente di divieto di prestare assistenza attiva all'evasione fiscale e a pratiche analoghe». Poi l'anno successivo il Consiglio federale ha annunciato che il diritto elvetico si sarebbe uniformato agli standard fiscali minimi dell'Ocse. A quel punto è stata imboccata una strada senza ritorno.

Dice il gestore di patrimoni di una grande banca ticinese: «Anche se qui l'evasione è sanzionata solo con un'ammenda, non accettiamo più contante, perché le giurisdizioni dei paesi nostri confinanti considerano questa un'attività illecita. Oggi dobbiamo avere la perfetta tracciabilità del denaro, dal mittente al destinatario. L'epoca del non dichiarato è tramontata». Nessuna legge impone a una banca svizzera di non accettare contante. Nei fatti, però, l'autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari, la Finma, invita le banche a «gestire il rischio legale»: come dire, autodisciplinatevi o sarete sanzionate, anche se poi capita il cliente russo che per certificare la provenienza dei propri capitali esibisce la legal opinion di uno studio moscovita sulla cui affidabilità nessuno può mettere la mano sul fuoco; così come capita non di rado che operatori bancari elvetici siano coinvolti in operazioni di riciclaggio.

Replica Pagani: «Ormai l'atteggiamento delle banche è netto: se i capitali non sono dichiarati , o aderisci alla voluntary disclosure, come hanno fatto tedeschi, inglesi, austriaci, spagnoli, americani, portoghesi, che hanno tuttora soldi in Ticino, oppure te ne vai. Si sta chiudendo un'epoca». La maggior parte dei capitali emersi potrebbe comunque restare qui, se non altro per motivi di diversificazione del rischio e per la quantità e qualità dei servizi che gli istituti elvetici offrono alla clientela internazionale.

Di questo cambiamento epocale, in fondo alla Svizzera premono fondamentalmente due cose: uscire dalla black list (la lista nera sulla fiscalità) nei rapporti con l'Italia, che per un paese da 8 milioni di abitanti che vive di commercio internazionale è un danno economico-finanziario rilevante, ed ottenere che le sue banche possano operare in modo diretto all'estero. Oggi le banche svizzere sono presenti in Europa e negli Usa con società di diritto locale sottoposte alla Vigilanza degli Stati in cui operano. Se i loro promotori e i loro consulenti andassero a sollecitare in questi paesi il pubblico risparmio commetterebbero reato. «Domani - conclude Pagani - con una nuova reputazione, l'adesione all'accordo per lo scambio automatico dei dati e il riconoscimento delle società sorvegliate dal nostro regolatore da parte degli altri regolatori europei, il nostro Paese potrà attrarre nuovi capitali grazie alle sue competenze. Con un accordo tra Stati, le banche e le fiduciarie ticinesi potrebbero proporre liberamente i propri servizi sul territorio italiano e offrire consulenza ai clienti in Italia, mentre i capitali rimarrebbero depositati in Svizzera».

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