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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2014 alle ore 06:48.
L'ultima modifica è del 24 novembre 2014 alle ore 08:44.

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Il mercato del lavoro sta cambiando profondamente. E dal groviglio di statistiche che di volta in volta indagano su tassi di occupazione, disoccupazione o sottoccupazione s'impongono alla ribalta i numeri – pesanti, drammatici, non più tollerabili – dei Neet, degli over 50 marginalizzati, delle donne che addirittura rinunciano a trovare un impiego, delle lunghe file di espulsi da fabbriche, uffici, botteghe. A un attento osservatore, il mercato del lavoro in Italia appare come un mare burrascoso, agitato da onde minacciose che nulla promettono di buono. Ma aspettare che si plachi l’increspatura delle onde non si può. L'emergenza urge. Sotto la superficie, intanto, i moti ondosi mostrano correnti diverse. In media il 35% della popolazione lavorativa cambia contratto o azienda in un anno, e non sempre in negativo. Tra il 2004 e il 2009 metà dei due milioni di contratti attivati in Lombardia si sono chiusi entro cinque anni con una durata media di 16 mesi. E se una volta un contratto durava 35 anni, oggi al massimo si arriva a dieci. Solo precarietà? Non solo e non sempre. Fino a 15-20 anni fa la globalizzazione era semplicemente una parola che dormiva tranquilla nei vocabolari, lontana ed estranea dall’agone dell’economia e dei commerci. E oggi? Le aziende sono costrette a evolversi velocemente, a soddisfare mercati, esigenze, consumatori il cui numero e profilo muta con una volubilità impensabile per ampiezza, capillarità, velocità. Così qualche esperto di dinamiche occupazionali inizia a studiare l’impatto di queste variabili sul lavoro classificandolo in una categoria che non è mera precarietà: è piuttosto “mobilità”. Il lavoro diventa sempre più un percorso e sempre meno un posto fisso,; a garantire la sicurezza non bastano (e sempre meno basteranno) i requisiti attuali. Più che il posto va difesa la competenza del lavoratore, va promosso l’investimento sulla sua crescita professionale. Entro il 2030 qualche grande azienda ha già annunciato che sostituirà gradualmente le mansioni meno qualificate con i robot. Si perderanno posti di lavoro, ma nuove esigenze, nuove occupazioni, nuovi profili emergeranno. Il mercato del lavoro, come la superficie del mare, non è immobile, in realtà si muove sempre. E in questa nuova “geografia dei lavori” non soccomberà chi sarà in grado di garantire mobilità, competenze, esperienze. Il domani è vicino, e bisogna seminare subito, investendo nella scuola, nell’università, nella ricerca, nella formazione continua. Per non perdere i futuri occupati. E per quelli di oggi? La ricerca di Italia Lavoro di cui si dà conto in questa pagina mostra che in realtà oggi le famiglie fanno i conti con un’altra precarietà, che viene prima di qualsiasi forma di flessibilità. È la solitudine. Ma chi perde il lavoro non può e non deve essere lasciato solo, deve avere una rete sociale che lo aiuta: indebolire la famiglia, che è stata l’ammortizzatore sociale più diffuso e spremuto in questi anni di dura crisi, è una strategia suicida. Ma non basta. Al Governo, allo Stato spetta battere un colpo, anzi due: primo, aiutando chi già sul territorio svolge un’utile opera di servizi all’impiego; secondo, attivando in un’ottica di sistema-Paese politiche attive più efficienti.

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