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Questo articolo è stato pubblicato il 25 novembre 2014 alle ore 06:40.
L'ultima modifica è del 25 novembre 2014 alle ore 07:00.

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Il caso Bellora dimostra che a volte – troppo spesso, potremmo aggiungere - ci vuole uno straniero per capire il valore di un’azienda italiana, investendo di conseguenza. Pochi marchi tessili al mondo possono vantare 131 anni di storia e una specializzazione nella biancheria di lusso come ha Bellora, nata in provincia di Varese nel 1883. Ma la globalizzazione e le dimensioni ridotte avrebbero potuto portare alla chiusura dell’azienda.
Se non fosse stato per l’arrivo di Himatsingka Seide, gruppo indiano del tessile-abbigliamento da 400 milioni di dollari, che nell’agosto di quest’anno ha completato l’acquisizione di Bellora, dopo essere entrato come socio industriale nel 2007.
Con le idee molto chiare: l’ufficio stile e la produzione sarebbero rimaste in Italia, perché il valore delle preziose lenzuola in lino, da sempre best seller di Bellora, esiste solo se sull’etichetta ci sono quelle tre parole magiche: made in Italy.
Dopo anni di bilanci in rosso, per l’esercizio che si chiude il 31 marzo 2015 il fatturato di Bellora sarà di 15 milioni con un ebitda di 900mila euro.

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