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Questo articolo è stato pubblicato il 08 dicembre 2014 alle ore 06:52.
L'ultima modifica è del 08 dicembre 2014 alle ore 07:58.

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«Bugie, dannate bugie e statistiche!», sembra aver esclamato un giorno un primo ministro inglese dell’Ottocento, Benjamin Disraeli. Non si sa che cosa avesse occasionato quell’autorevole intemerata, ma si sa che la diffidenza verso le statistiche si ritrova spesso anche nel resto della popolazione, allora come adesso. Forse la più accesa e recente diffidenza – una diffidenza che nessuna pacata ricerca è riuscita a dissipare – sta negli effetti dell’euro sul livello dei prezzi in Italia. Eppure di statistiche – autorevoli e indipendenti – c’è un disperato bisogno. Parafrasando quello che scrisse Keynes a proposito del ruolo dell’economista (in una simpatica letterina alla moglie Lydia Lopokova): «In questo mondo moderno e sovrapopolato, che può continuare a vivere solo con sottili aggiustamenti, [lo statistico] non è solo utile ma necessario».

Ma il disorientamento di questi mesi è più complesso. Da una parte c’è una discrasia fra diversi dati, quantitativi e qualitativi, sull’andamento dell’economia; una discrasia che esamineremo più avanti. Dall’altro lato, ci sono equivoci e confusioni nei modi di calcolare e comunicare le statistiche: ultimo inciampo, quello relativo ai due comunicati, il 28 novembre, dei dati sul mercato del lavoro: da un lato, l’aumento dei disoccupati e la diminuzione degli occupati nei dati Istat; dall’altro lato, la creazione, nell’ultimo anno, di due milioni e mezzo di posti di lavoro secondo i dati del ministero del Lavoro. Le due comunicazioni, anche se riferite allo stesso periodo (gli ultimi 12 mesi) non sono incompatibili (il dato Istat comprende anche i lavoratori autonomi), e Claudio Tucci, sul Sole 24 Ore del 29 novembre, ne ha fatto un’attenta analisi. Ma non vi è dubbio che il lettore comune si trova disorientato quando nello stesso giorno due dati statistici sembrano dare letture diverse del mercato del lavoro.
C’è bisogno di più “educazione statistica”, certamente. Ma bisogna anche ricordare che oggi come oggi la vita è difficile per gli statistici. Perché i dati siano significativi c’è bisogno di una certa continuità nel panorama di fondo di un’economia.

Di solito i dati non sono censuari, a parte quelli, appunto, del censimento. Cioè a dire, sono dati raccolti da campioni che vengono costruti al tempo X secondo tecniche che li rendono rappresentativi dell’universo di riferimento. Ma se al tempo Y la struttura dell’economia comincia a cambiare, quei dati rischiano di non essere più rappresentativi. Il problema non è solo quello di una fotografia che non riesce a catturare la cinematografia.
C’è anche il problema di quali variabili vengono calcolate e quali non vengono calcolate. Sir Frank Holmes, un economista neozelandese, scrisse: «Le statistiche economiche sono come i bikini; quello che rivelano è importante, ma quello che nascondono è vitale». La battuta scherzosa ha una morale, specie in tempi, come quelli che stiamo vivendo, di forti cambiamenti strutturali: le statistiche viaggiano guardando nello specchietto retrovisore, mentre il panorama che si ha accanto sta cambiando.

L’economia italiana ha subìto l’urto della più grave lacerazione degli ultimi ottant’anni, aggravata poi dalla crisi da debiti sovrani e dalle costrizioni di una austerità fine a se stessa. Sarebbe da meravigliarsi se questi urti non avessero forzato cambiamenti profondi nel tessuto produttivo e sociale della nazione. Da questi cambiamenti ha origine una discrasia illustrata nel grafico a fianco. Vengono riportati gli andamenti di nove variabili, dall’inizio del 2013 a oggi; quattro di queste sono variabili “reali”: produzione industriale, Pil reale, fatturato reale, vendite di auto; e cinque sono variabili “qualitative”, cioè basate su inchieste e giudizi: superindice Ue, superindice Ocse, indice Pmi (media ponderata di manifatturiero e servizi), indici di fiducia delle famiglie e di fiducia delle imprese. In un’economia “ben temperata” queste variabili dovrebbero andare di conserva. Ma, come si vede, non c’è nessuna “conserva”: in genere, le variabili qualitative danno indicazioni più positive di quelle “quantitative”. E le prime, in linea teorica, dovrebbero essere più pronte a catturare i mutamenti nella struttura dell’economia. I dati statistici continuano a essere utili e indispensabili, ma è bene tenere sotto controllo, nel cruscotto della congiuntura, più variabili di quelle che siamo soliti seguire.

fabrizio@bigpond.net.au

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