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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2014 alle ore 07:29.
L'ultima modifica è del 10 dicembre 2014 alle ore 08:02.

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Veronica Panarello, mamma del piccolo Loris, ha continuato a respingere la pesante accusa di omicidio volontario, aggravato dal legame di parentela, e occultamento di cadavere mossa dalla Procura. Dopo altre sei ore di interrogatorio, la donna è stata trasferita in carcere a Catania.

Ma come può una mamma uccidere il proprio figlio? È questa la domanda che nelle ultime ore fa eco alla notizia che la mano assassina del piccolo Loris sarebbe - il condizionale è d'obbligo, trattandosi per il momento solo di ipotesi investigativa - proprio quella della madre. L'atto più contro natura che si possa immaginare - una mamma che toglie la vita a chi ella stessa la vita ha dato - scuote l'animo umano dai tempi di Medea e ripropone lo stesso interrogativo dopo casi di cronaca come quello del Ragusano, purtroppo non così rari.
Non è possibile cercare di comprendere questi gesti se non abbandonando i canoni della ragione per entrare nell'ambito della patologia mentale, laddove si annidano quei disturbi ancor oggi troppo spesso misconosciuti, ignorati quando addirittura non volutamente negati. Eppure gli studi in psichiatria ci dicono che se ben una mamma su cinque va incontro ad una qualche forma di depressione post-partum, in una su venti la depressione può raggiungere livelli di marcata gravità, trasformando uno dei periodi più lieti della vita di una donna (e della coppia) nella più profonda delle angosce esistenziali, dove tutto si tinge di nero e dove non vi è più alcun anelito di speranza. In casi estremi, una mamma può arrivare ad uccidere il proprio bambino nel tentativo paradossale e irrazionale di proteggerlo dai pericoli dell'esistenza, da quel Male che si è impadronito della propria mente e che non le concede tregua. È questo stesso stato d'animo che ritroviamo anche nei cosiddetti casi di omicidio-suicidio, laddove una madre (o un padre), sterminati i figli, il coniuge, addirittura il proprio cane, pone fine alla propria esistenza. Sbrigativamente liquidati dalla cronaca come raptus - termine sconosciuto alla Psichiatria - in realtà questi gesti sono espressione di un “estremo atto di amore”, di colui che, in preda all'angoscia della follia, decide di portare con sé, lontano da un'esistenza non più sopportabile, le persone che ama.

Che dire poi di quei casi in cui il bisogno psicologico di assumere, per interposta persona, il ruolo di malato, porta una mamma a produrre deliberatamente sintomi di una malattia nel proprio piccolo, come accade nella famosa sindrome di Münchhausen per procura. Bambini che passano lunghi periodi della loro infanzia tra un ricovero e l'altro, prima che l'occhio del medico sia insospettito da quegli aspetti di artificiosità sia del quadro clinico sia del comportamento della mamma.
Dietro una mamma che uccide il proprio bambino si nasconde (quasi) sempre una storia di grave disagio psichico, quando non di vera e propria malattia mentale. Le statistiche ci dicono che solo una parte di questi disturbi viene prontamente diagnosticata e adeguatamente trattata, con interventi psicoterapeutici e/o psicofarmacologici. Purtroppo, ancora oggi la malattia psichiatrica non viene considerata alla stessa stregua di una qualunque altra patologia, al contrario, rimane vittima di stigma e di luoghi comuni che ancora troppo spesso portano a negare la sua stessa esistenza. Questo nonostante le conoscenze crescenti delle neuroscienze abbiano ormai dimostrato da tempo che la depressione è come la polmonite, solo molto più letale.
Pietro Pietrini, psichiatra Università di Pisa

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