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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2014 alle ore 07:35.
L'ultima modifica è del 10 dicembre 2014 alle ore 07:36.

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«La verità è che oggi la Germania non sa bene che cosa fare con la Francia. Per questo la legge di stabilità francese, la sua conformità o meno con le regole europee, è destinata a diventare il primo vero test per credibilità e tenuta della nuova governance dell'euro scaturita dalla crisi» riassume qualcuno di casa nelle segrete stanze dei palazzi Ue.
La “questione francese” si aggira per l'Europa con un potenziale esplosivo uguale e opposto a quello del “problema tedesco”.

A Bruxelles i ministri dell'Eurogruppo sono stati costretti ancora una volta a prenderne atto, fidando in una qualche ricomposizione delle enormi divergenze franco-tedesche entro marzo: il tempo concesso ai Paesi fuori norma, Francia, Italia e Belgio, per mettersi in linea o dimostrare che di fatto già lo sono e Bruxelles sbaglia. Difficile però farsi molte illusioni, quando il linguaggio più diffuso è quello dell'incomunicabilità.
«La preoccupazione nostra e di molti altri Paesi è una sola: guardare alla situazione macroeconomica globale dell'eurozona prima che alle singole situazioni-Paese e chiedersi se l'attuale politica di bilancio globale aiuta o no la crescita» ha dichiarato ieri il francese Michel Sapin. «Noi sappiamo benissimo che dobbiamo continuare a tagliare il deficit. Ma se vogliamo una politica fiscale collettiva più favorevole alla crescita questo significa che altri Paesi dovrebbero compensare un po'». In soldoni, la Germania e tutti gli altri che possono dovrebbero tagliare i rispettivi surplus eccessivi. E comunque, Sapin ha puntualizzato, la Francia non farà «altri sforzi in termini di tagli o riforme, quando il bilancio è già stato votato».

Fin de non recevoir, dunque, alle richieste di Commissione ed Eurogruppo che invece chiedono di più di qui a marzo perché ritengono insufficienti le attuali misure. «Proveremo il contrario» insiste il ministro di una Francia da sei anni in deficit eccessivo (sopra il 3%) e per questo a rischio in marzo di una multa Ue per oltre 4 miliardi.
«Se non rispetteremo le regole che ci siamo dati, semineremo dubbi e sfiducia e questo sarà negativo per l'Europa che invece ha tutte le carte in regola per tornare a essere un continente dinamico. Per questo noi tedeschi insistiamo per il rispetto delle regole», ha ribadito però poco dopo da Colonia il cancelliere Angela Merkel. Altra fin de non recevoir. Di fatto l'Eurozona oggi appare inchiodata al ballo del mattone: ciascuno ripete il suo passo sostanzialmente da fermo, ripiegato sull'immobilismo di regole e posizioni sperando così di evitare strappi devastanti. Nella realtà il patto di stabilità rafforzato, voluto rigido e meccanicistico nei margini di azione e sanzione per evitare l'arbitrarietà di giudizio sui singoli Paesi, nei fatti è incapace di spingere gli Stati membri a comportamenti virtuosi. Peggio, si dimostra invece perfettamente in grado di gelare investimenti e crescita economica, alimentare la caduta dei prezzi, creare disoccupazione record, centrando così obiettivi contrari a quelli del suo statuto: stabilità di prezzi, economia, finanzia pubblica e privata, deficit e debiti. La stretta del rigore, le riforme che richiedono anni per dare frutti soprattutto in un panorama deprivato del concetto stesso di solidarietà europea, quindi di piani collettivi per la crescita e realizzabili a breve, da strumenti giusti e necessari per porre le basi di uno sviluppo sano e sostenibile si tramutano in assurdi veicoli di recessione, stagnazione, deflazione, cioè di instabilità economica e finanziaria.

È politicamente ed europeisticamente realistico sanzionare per 4 miliardi o giù di lì la Francia, seconda economia dell'euro, per violazione continuata delle regole Ue? Davvero gioverebbe alla credibilità di un patto di cui da tempo gli stessi mercati diffidano per non parlare dei vari Fmi, Ocse, etc? Non sono proprio i mercati la sanzione più incisiva e brutale per richiamare i Paesi all'ordine? Certo, finché la Francia sarà protetta dallo scudo tedesco, non subirà comunque più di tanto i morsi della speculazione. Ma può la Germania permettersi il lusso di abbandonarla e/o di esporla all'umiliazione delle prime multe del patto? E può la nuova governance europea del two-pack continuare a espropriare le democrazie parlamentari della sovranità sui bilanci nazionali quando nel frattempo l'Europa non aiuta ma blocca gli orizzonti di crescita di molti Paesi? È ovvio che entrambi i partiti in campo, quello tedesco e francese, hanno ciascuno ottime ragioni, sia pure opposte: dovrebbero fonderle per dar vita a un governo più intelligente ed efficace della moneta unica. Non succede perché tra loro, che in realtà sono la voce delle due Europe che convivono nell'euro, vince la sfidu cia reciproca, un tarlo finora resistente a ogni cura. L'impasse però è una scelta pericolosa almeno q uanto gli estremismi ciechi .

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