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Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2014 alle ore 07:51.
L'ultima modifica è del 12 dicembre 2014 alle ore 09:08.

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Ci vuol altro che il piano Juncker da 315 miliardi in tre anni per far uscire l’eurozona dalla trappola in cui è finita inseguendo per troppo tempo il totem del consolidamento fiscale a senso unico e senza paracadute di contorno.

Ci vuol altro perché, dopo la grande crisi del 2008, il resto del mondo è in ripresa, gli Stati Uniti tornano a correre. Solo l’Europa continua a boccheggiare in bilico tra crescita smorta, stagnazione o recessione, 26 milioni di disoccupati e prezzi in caduta e sempre più a ridosso della deflazione. Una miscela mortale che alla lunga rischia di distruggere gli sforzi fatti fin qui per risanare le finanze pubbliche, abbattere i deficit e controllare la dinamica dei debiti.

Peggio. Di questo passo rischiano di allargarsi ulteriormente le divergenze tra i paesi dell’euro al punto da rendere virtualmente impossibile la tranquilla conduzione di una politica monetaria unica oltre che la pacifica convivenza europea. Il successo dei partiti nazionalisti e anti-Ue, del resto, sono un segnale di allarme eloquente.

Negli ultimi 6 anni non solo si sono approfonditi i divari e il ventaglio delle diseguaglianze tra paesi in termini di tassi di sviluppo, disoccupazione, povertà, livelli di reddito e di garanzie sociali ma si è anche interrotto il processo di convergenza tra regioni: in breve, si è fermata, quando non invertita, la marcia verso il benessere condiviso, una delle fondamentali ragion d’essere del progetto di integrazione.

Alla vigilia del vertice dei 28 capi di Governo Ue che giovedì prossimo a Bruxelles dovrebbe dare il via libera al piano Juncker, la denuncia arriva dal terzo rapporto annuale dello Iags sulla crescita europea: è il controcanto al pensiero unico prevalente da parte di un gruppo di economisti indipendenti, francesi, tedeschi, danesi e austriaci. La loro analisi è sposata dal gruppo socialista all’europarlamento, che intende farne la propria bandiera al summit. «Ci vuole un New Deal insieme a un nuovo policy mix in Europa» avverte Maria Joao Rodriguez, vicepresidente del gruppo.

In concreto, dice, la priorità n.1 deve diventare la crescita trainata dagli investimenti con respiro strategico. Il consolidamento di bilancio va perseguito in modo più ragionevole per ridurre i debiti senza sacrificare il potenziale di crescita dei paesi. Attraverso il coordinamento delle politiche economiche, i paesi con più margini devono stimolare la domanda e contribuire a ripianare le ineguaglianze Ue. Invece di privilegiare il taglio del costo del lavoro nell’euro-sud , le riforme strutturali devono carburare sviluppo. Sostenuto da lotta a evasione e concorrenza fiscale sleale. E dalla politica espansiva della Bce.

Il piano Juncker va nella giusta direzione ma non basta, perché insufficiente, perché scommette essenzialmente su garanzie e un effetto leva da 1 a 15 quasi certamente sopravalutato. Perché punta tutto sugli investimenti privati che, se arriveranno, saranno quelli che sarebbero stati fatti comunque, visto che non è chiaro quali sarebbero i nuovi stimoli in grado di mobilitarne di nuovi.

Per allargarne risorse e spettro degli interventi – le proposte di progetti alla ricerca di finanziamenti superano già i mille miliardi di euro – sono indispensabili i contributi degli Stati membri che godrebbero, come nella ricetta Juncker, della neutralità nel calcolo dei deficit-debiti. Questi contributi verrebbero convogliati in un Fondo europeo tipo Esm, l’attuale strumento Salva-Stati, per raccogliere denaro sui mercati da redistribuire investendolo in iniziative mirate a una crescita più “verde” e digitale, più innovativa e sociale, sorvegliate nella loro effettiva attuazione e condizionate al rispetto delle regole di bilancio e alle riforme da parte di chi ne benefici.

In questo modo il piano di investimenti creerebbe una capacità di investimento europea in grado di superare le strozzature nazionali. Trasformando i debiti nazionali in debito europeo, costituirebbe un polmone di sviluppo che a regime potrebbe muovere fino al 4% del Pil dell’eurozona, 400 miliardi all’anno, contro i 100 della proposta Juncker.

Ma è realizzabile nell'Europa in profonda crisi di sfiducia in se stessa, dove la Germania di Angela Merkel, il paese che in assoluto possiede i maggiori margini di manovra, insegue invece il pareggio di bilancio nel 2015, quando il suo surplus corrente segnerà il nuovo record a 222 miliardi? E dove comunque la mutualizzazione dei rischi e più ancora dei debiti resta il grande tabù?

Le divergenze che non cessa di allevarsi in seno minano seriamente il futuro dell’euro. Ma la lezione degli ultimi sei anni di crisi dice che soltanto nell’emergenza più acuta l’eurozona trova il coraggio di abbandonare i piccoli passi e la cura dei palliativi. Per ora l’emergenza non c’è (ancora). Quindi, business as usual. O quasi.

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