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Questo articolo è stato pubblicato il 13 dicembre 2014 alle ore 08:32.
L'ultima modifica è del 13 dicembre 2014 alle ore 11:07.

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C’era una volta il mercato finanziario... Già, proprio così: c’era una volta un mercato finanziario in cui i giudizi sulle imprese si basavano sui fatti e non sulle supposizioni. E la liquidità, di conseguenza, correva verso le società che si dimostravano più affidabili e redditizie, attente all’equilibrio finanziario ma sempre pronte a competere con tutte le proprie risorse sia sul proprio mercato che in quello degli altri.

Era un mondo in cui i fondamentali economici di un Paese erano ben riflessi dal livello dei propri tassi di interesse, così come erano i prezzi di Borsa e i rating per il giudizio sulle imprese. E c'era anche una logica nel fatto che le imprese pubbliche non potessero avere un voto di affidabilità superiore a quello dello Stato sovrano che ne controllava il capitale.Oggi non è più così. Cinque anni di crisi finanziaria, economica ma soprattutto politica, hanno completamente distorto le regole e i giudizi su cui si basava il corretto funzionamento dei mercati. La liquidità e la fiducia, un tempo considerati come un premio da maneggiare con cura, sono diventati un regalo, una commodity che si compra a sconto con i fondi e con le aste illimitate delle banche centrali, il cui straordinario e lodevole impegno per evitare il tracollo del sistema finanziario è stato mal gestito e mal ripagato dalla classe politica europea. Il denaro fa scendere i tassi, ma certamente non compra le riforme. E l'Italia, in questo senso, rischia di diventare un caso da manuale. Prova ne sia il declassamento delle Generali da parte di Standard&Poor's: il Leone, terza compagnia assicurativa europea, ha subito un taglio del rating non perchè sia in difficoltà o troppo indebitato, ma perchè il suo voto di affidabilità era «troppo alto» rispetto a quello assegnato alla Repubblica italiana. È come dire che un'automobile perde valore se la strada su cui corre ha delle buche: se fosse davvero così, le macchine in Italia si prenderebbero gratis. Nel caso delle Generali, S&P ha dimostrato non solo una scarsa aderenza alla realtà della globalizzazione - la compagnia triestina è italiana ma compete in tutto il mondo - ma anche un'inspiegabile miopia nel giudizio di affidabilità finanziaria: come si fa a giustificare una riduzione di rating a una società che ha chiuso l'ultimo trimestre con un profitto di 513 milioni di euro, con ricavi in aumento del 27% a 748 milioni di euro, che ha tagliato i costi e ceduto asset per quasi 4 miliardi, tanto da presentarsi a fine anno con l'obiettivo di raggiungere entro il 2015 una «ratio» di Solvency 1 al 160%, uno dei livelli più elevati in Europa. Non solo. Tagliando il voto sulle Generali, l'agenzia di rating ha fatto clamorosamente (e inspiegabilmente) marcia indietro su quanto aveva riconosciuto alla compagnia solo pochi mesi fa, quando aveva riconfermato il voto dopo un esame attento dei conti e degli asset. Nel comunicato di ieri l'agenzia non l'ha scritto, ma nel marzo scorso le Generali hanno superato brillantemente uno stress test estremo (condotto dalla stessa S&P) che prevedeva di fatto un default dell'Italia. In quell'occasione, le Generali presentarono un recovery plan in cui le potenziali perdite in questo scenario erano più che compensate dalla qualità degli asset. È più di uno scivolone. È intollerabile.

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