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Questo articolo è stato pubblicato il 13 dicembre 2014 alle ore 08:22.
L'ultima modifica è del 13 dicembre 2014 alle ore 10:04.

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Quando nacque, nella primavera del 1972, The Journal of European Economic History non fu soltanto la prima rivista di storia economica europea, ma la prima rivista di storia europea tout court. Facciamo un passo indietro. Soltanto pochi mesi prima, nell’estate del 1971 il presidente degli Stati Uniti Nixon aveva, con una dichiarazione unilaterale, messo fine al regime monetario di Bretton Woods. L’Europa del Mercato comune andava cercando nuove strade. Già nel 1970 era apparso il Rapporto Werner, che prefigurava l’adozione, in un futuro non troppo lontano, di una moneta comune (una moneta da Werner battezzata profeticamente Euror). E proprio nel 1972, data di nascita del Journal, sarebbe nato il Serpente monetario europeo, anticipazione di quel Sistema monetario europeo istituito nel 1979.

Per queste ragioni, la nascita del Journal era sì atto scientifico, che consentiva di aprire, ben prima dell’avvento di internet e della globalizzazione, storiografie ancora prevalentemente nazionali. Ma pure atto politico, di alto valore civile e morale: perché “riannodare i fili della storia europea”, per citare le parole del primo numero della rivista, indicava la capacità di disegnare sentieri comuni e comparativi e, quindi, possibilità di individuare percorsi condivisi se non unitari. Significava riandare a quell’unità sostanziale, di fondo, che aveva unito l’Europa per secoli, ben prima dell’abbattimento delle barriere e delle frontiere, e che ne aveva fatto una unità culturale, prima ancora che economica. Ma non era, questo, l’unico tratto distintivo della nuova rivista. Perché il Journal, rivista europea e internazionale, nasceva nel nostro Paese. E in Italia costituiva e costituisce un unicum. L’intuizione era stata dello storico dell’economia napoletano Luigi De Rosa (1922-2004), fondatore ed Editor del Journal fino alla scomparsa, infaticabile esploratore di archivi storici e di sentieri culturali poco o affatto battuti. Formatosi nell’Università di Napoli negli anni del conflitto, De Rosa si era recato dopo la guerra nella London School of Economics, dove aveva tra l’altro ascoltato le lezioni di Hayek sulla moneta e (abate Galiani incluso). Docente a Bari, a Chieti, a Napoli, De Rosa aveva intessuto un fitto dialogo con la Spagna e con gli storici spagnoli e aveva insegnato negli Stati Uniti. Aveva, tra i primi, aperto il dialogo con le istituzioni scientifiche cinesi (su tutte, l’Accademia cinese delle scienze sociali) e, concretamente, le porte ai primi laureati cinesi autorizzati a compiere studi di specializzazione all’'estero. Era, De Rosa, abituato a dialoghi ampi, inter-culturali e inter-disciplinari. Due caratteristiche che egli impresse anche alla sua rivista.

Economia e storia, ovviamente, ma anche antropologia, diritto, sociologia, avrebbero fatto capolino sulle pagine della rivista, in scritti che spaziavano dall'età antica a quella medievale, da quella moderna a quella contemporanea, abbracciando paesi, aree e continenti diversi. Perché l’Europa di De Rosa era l’Europa delle influenze e dei rapporti con il mondo. Non euro-centrismo, ma consapevolezza del ruolo dell’Europa. In pochi anni la rivista divenne globale e così il suo pubblico. E alla rivista contribuirono studiosi di tutto il mondo e, tra questi, il futuro premio Nobel per l’Economia Douglass C. North (circa trenta anni prima che gli fosse attribuito il premio) e lo storico delle crisi finanziarie Charles P. Kindleberger.

E oggi? Non solo la rivista è viva nell’età dei tagli alla cultura, ma rinasce sotto gli auspici dell'Associazione bancaria italiana, che si è proposta di rilanciare la testata, rilevandola da Unicredit. La rivista, infatti, era e resta patrimonio delle banche italiane. Nata con il sostegno dell’allora Banco (poi Banca) di Roma, il Journal era stato negli ultimi anni gestito da Capitalia prima, da Unicredit poi. Una scelta, quella dell’Abi, che ha lo scopo, da una parte, di non disperdere ma di valorizzare un patrimonio unico nel suo genere, favorendo la crescita della cultura economica e finanziaria in Italia e non solo; dall’altra, di supportare il dibattito e le proposte di policy con utili lezioni del passato, così come avviene nei maggiori paesi avanzati – Stati Uniti in testa, dove il Presidente Obama riceve alla Casa Bianca e dialoga volentieri con gli storici dell'economia. Intendimenti ai quali hanno fatto seguito azioni specifiche: la digitalizzazione, sul versante della valorizzazione, di tutti gli scritti apparsi sulla rivista (oltre un migliaio); la preparazione, sul versante del dibattito, di un volume monografico nel 2015 sull'integrazione bancaria europea. Una occasione che consentirà di far dialogare passato e presente e che si annuncia di particolare interesse: l'ultima volta che il Journal diede vita a una iniziativa analoga era il 2002 e ne nacque un volume sulla stabilità dei sistemi finanziari che metteva in guardia, al lume della Storia, da un rischio: quello di una moneta senza Stato.

Giovanni Sabatini è presidente e direttore generale dell’Abi

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