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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2014 alle ore 11:54.

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«Quest'anno Natale arriva presto» Così il 26 novembre Juncker ha annunciato al Parlamento il piano di investimenti che dovrebbe essere approvato dal Consiglio europeo del 18 e 19 dicembre, l'ultimo a presidenza italiana. Solo dopo averlo mangiato sapremo se il budino del Natale 2014 era buono. Intanto, apprezziamo le intenzioni di Juncker: «Dobbiamo mandare un messaggio ai popoli d'Europa e del resto del mondo: l'Europa è di nuovo in pista».

Il cosiddetto Piano Juncker, messo a punto quest'estate da Katainen, è stato ampiamente illustrato dal Sole 24 Ore nelle scorse settimane: sarà creato un Fondo europeo per gli investimenti strategici con una dotazione di 13 miliardi di euro (8 dalla Commissione e 5 dalla Bei), quale prima garanzia per i rischi di eventuali perdite offerta a privati che finanziassero progetti d'investimento. L'obiettivo dichiarato è stimolare l'investimento privato senza creare ulteriore debito. È difficile valutare le probabilità che si raggiunga il totale previsto di 315 miliardi di nuovi investimenti ma, al momento, il Piano è l' “unico gioco in città” e in quanto tale va accolto con favore. Con una importante qualificazione.
Juncker rivendica con orgoglio l'essere riuscito, con «uno forzo senza precedenti» a ottenere 8 miliardi dal bilancio Ue. Da dove li prende? Due miliardi vengono da “fondi inutilizzati”, gli altri 6 in parti uguali da Connecting Europe, per la diffusione delle tecniche d'informazione e Horizon 2020, il programma per finanziamento della ricerca, da poco lanciato con grande enfasi propagandistica.

Riducendo le risorse dedicate alla ricerca la Commissione commette un errore strategico e manda un segnale negativo, lo stesso dato dai governi italiani asciugando i finanziamenti a università e ricerca. L'Accademia Europea, che annovera tra i propri membri 3000 tra i più prestigiosi studiosi dell'Unione, ha scritto al Parlamento, alla Commissione e al Consiglio europeo esprimendo preoccupazione per l'effetto che la riduzione dei fondi avrà sulla ricerca in Europa.

«Cambiamenti di direzione di breve periodo - scrive Cloetingh, presidente dell'Accademia - sono quasi sempre seguiti da fallimenti nel lungo andare». Si dirà che tutti difendono il proprio orto e che gli scienziati non fanno eccezione. In questo caso però l'orto merita una vigorosa difesa, visto che non si tratta di sostenere privilegi corporativi. La spesa in Ricerca e sviluppo dell'Unione europea è, in rapporto al Pil, di quasi un punto percentuale inferiore a quella degli Stati Uniti (1,9% contro 2,8% nel 2011, ultimo dato Ocse disponibile), ed è particolarmente bassa nei Paesi mediterranei (solo 1,25% in Italia) e in quelli dell'Est. Non v'è dubbio che la spesa vada aumentata. Gli investimenti in ricerca effettuati dalle imprese, anche quelli che potessero derivare dal Piano Juncker, sono indispensabili e devono essere favoriti, anche dal fisco, ma nulla può sostituire la ricerca di base o quella di prima applicazione fatta in massima parte nelle università e nei centri privati e pubblici che vivono grazie alla capacità di acquisire, su base competitiva, finanziamenti che vengono in buona misura da Horizon 2020. Senza quella di base, la stessa ricerca delle imprese inaridirebbe (basti pensare a quella farmaceutica e delle biotecnologie). C'è poi un motivo ulteriore per considerare il taglio dei fondi europei alla ricerca come un grande errore.

L'Europa soffre di una nuova, crescente frammentazione (molti parlano di ri-nazionalizzazione dell'Unione). Si sta radicando una pericolosa sfiducia reciproca che blocca iniziative e politiche comuni. La comunità europea dei ricercatori è un potente antidoto a questa deriva. I precedenti Programmi Quadro, oggi sostituiti da Horizon 2020, finanziando ricerche inter-universitarie con la partecipazione di studiosi di vari Paesi, hanno dato un contributo incalcolabile, insieme al programma Erasmus per gli studenti, a promuovere quella coesione europea della quale sentiamo più che mai bisogno.

L'esperienza di chi partecipa a ricerche europee dice che nulla più del lavorare a progetti comuni riesce a creare stima e fiducia reciproche.
Il Consiglio europeo di dicembre è ancora in tempo a trovare il modo di finanziare il Piano Juncker senza ridurre Horizon 2020, indispensabile non solo allo sviluppo ma anche alla coesione umana e sociale, prima ancora che intellettuale, senza la quale difficilmente l'Europa sarà “di nuovo in pista”.

P.S. Chi chiedesse dove si possano prendere, in alternativa ai fondi per la ricerca, le risorse per il Piano Juncker può utilmente rileggere il Rapporto Sapir del 2003 che definisce la Politica agricola comune come “un relitto storico”. Da allora le cose sono un po' cambiate ma la Pac è ancora di gran lunga la voce preponderante del bilancio Ue.

gt14@duke.edu

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