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Questo articolo è stato pubblicato il 16 dicembre 2014 alle ore 07:46.
L'ultima modifica è del 16 dicembre 2014 alle ore 08:21.

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È difficile considerare quella di Shinzo Abe una vittoria piena. L'alta astensione è il segno di un Paese che resta in grande difficoltà. Ma in quelle urne c'è comunque il riconoscimento per chi ha provato con una politica economico-monetaria aggressiva a portare il Giappone oltre la trappola mortale della recessione.

Non si può dire lo stesso per l'Europa. È davvero preoccupante l'immobilismo di questa area del mondo di fronte a una situazione mondiale che si sta sempre più consolidando in suo sfavore. Buco nero della crescita ed epicentro deflazionistico mondiale, l'Europa è come rassegnata nella sua posizione di subalternità rispetto all'asse Stati Uniti-Cina che ha preso il controllo sugli assetti geopolitici globali. Non c'è competizione, in questa fase, tra le due grandi potenze. Arriverà il tempo del conflitto, ma per il momento gli interessi economici e politici sono complementari più che divergenti. Pechino, concentrata sulla priorità di gestire internamente la fase più difficile del suo sviluppo, non è ancora pronta a ingaggiare una competizione diretta con gli Stati Uniti.

Questi ultimi, invece, non vedono ancora nei cinesi concorrenti diretti sulla loro economia del software. È stato addirittura avviato un programma comune, con uno scambio tra funzionari e alti generali, per testare le rispettive reazioni in caso di crisi politiche gravi. Xi Jinping è considerato, al di là dell'Atlantico, un grandissimo leader, forse il più lungimirante oggi sullo scenario mondiale. Il nemico comune è la Russia. Anche la politica di bassi prezzi del petrolio, attuata dall'Arabia Saudita, è finalizzata a mettere in difficoltà più la Russia che gli Stati Uniti. La sofferenza di Putin, al G20, è stata sotto gli occhi di tutti: e non sono certo le sanzioni europee la causa di quell'isolamento. Mai, dalla fine della guerra fredda, il mondo aveva visto un'egemonia più chiara. Mai l'economia americana è stata più solida. Quella dell'energia è una vera e propria rivoluzione per gli Stati Uniti: dall'essere il più grande importatore energetico sono diventati un Paese esportatore grazie allo shale oil e allo shale gas.

Negli ultimi tre mesi il prezzo della benzina alla pompa è calato fino a determinare un risparmio di dieci dollari a settimana per ogni americano. E sono soldi che vengono subito spesi in altri consumi, altro che i nostri 80 euro che non hanno prodotto alcun effetto per una totale mancanza di fiducia. Le banche americane oggi hanno ritrovato solidità, il deficit è tornato su livelli normali, dopo essere stato spinto fino all'8%, la crescita c'è, l'andamento dei prezzi è sotto controllo. Anche il rafforzamento del dollaro sull'euro non è vissuto come un problema. Il campo di competizione per l'industria americana è ormai totalmente spostato sul software, non sui macchinari, non sull'hardware. Per Google o per Facebook il livello del dollaro non è un problema. Non sono in competizione con nessuno, vendono servizi in tutto il mondo, non sono più esportatori tradizionali. Apple come Amazon sono banche più che industrie. E i laboratori americani già lavorano a pieno ritmo sull'economia del futuro: quella delle biotecnologie, i pezzi di ricambio per l'uomo. Dall'altra parte del Pacifico la Cina ha il solo problema di rallentare gli investimenti per rendere più equilibrato il proprio sviluppo.

Cresce comunque oltre il 6 per cento e ha un'inflazione sotto il 2 per cento, caso più unico che raro. Jinping ha dichiarato guerra alla corruzione e l'ha vinta in breve tempo: i casinò di Macao hanno perso il 40 per cento del loro giro d'affari. Su ricerca e innovazione l'Europa è già stata distaccata. In questo quadro è davvero imbarazzante la mancanza di visione dei leader europei. L'unico che ha una percezione globale di quello che sta accadendo è Mario Draghi. Ma anche lui è stato costretto a una lentezza d'azione estenuante. Non abbiamo per nulla combattuto la guerra delle monete, che ha schiacciato le nostre produzioni con i livelli assurdamente alti dell'euro. Solo quando il Giappone, con una svalutazione del 30 per cento, ha cominciato a fare concorrenza alle produzioni tedesche, è stato possibile agevolare un calo della moneta unica verso valori più realistici. Ma intanto la storia dell'euro potrebbe essere ormai a un crocevia decisivo. Da una parte il quantitative easing, che i mercati danno per scontato e che, per questa ragione, non può più essere rinviato. Dall'altra le elezioni greche, con la possibile vittoria di Tsipras.

Draghi, per quanto gli compete, farà bene a sparare il più forte possibile con il suo bazooka monetario, ma il cannone della politica imbracciato dalla sinistra greca potrebbe davvero segnare la fine dell'esperienza dell'euro, mostrando ai mercati che una via d'uscita dalla moneta unica c'è e che l'euro non è acquisito una volta per tutte. Succede anche questo quando non hai la forza morale e politica per contrastare il declino. Ed è quel lo che è avvenuto all'Europa. La colpa di un eventuale crollo dell'eurosistema se la prenderanno i greci, e forse gli italiani, ma è alla Germania che è mancata la leadership necessaria a farsi carico del destino dell'Europa. Forse Berlino può ancora cambiare la storia, forse può garantire quel sostegno a Draghi che è necessario, forse può capire quello che i giapponesi hanno capito – anche loro in ritardo – alcuni anni fa, ma di certo non bisognava arrivare fin qua. Con un'Europa marginale, costretta a guardare da lontano i leader del mondo. I prossimi mesi saranno decisivi.

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