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Questo articolo è stato pubblicato il 17 dicembre 2014 alle ore 07:05.
L'ultima modifica è del 17 dicembre 2014 alle ore 07:42.

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La realtà e la percezione della realtà, in Italia, spesso si miscelano fino a formare un tutto indistinto. Nella transizione italiana, che ha radici nella formazione ottocentesca dello Sstato unitario e il cui albero è cresciuto storto nel ’900, la giustizia civile è uno degli elementi più critici. In un Paese anti-scientifico come il nostro, la riflessione sulla giustizia assume toni talvolta apocalittici o ideologici, spesso populistici, quasi sempre emotivi.

Antonio Lepre, con il volume Analisi della giustizia civile. Un’idea di riforma (Rubbettino, pagg. 110, 12 euro), prova a introdurre nel discorso pubblico ciò che spesso manca: la decrittazione del fenomeno partendo dai numeri. Numeri che Lepre attinge da fonti ufficiali: i dati della Commissione misura del processo, istituita dal Consiglio superiore della magistratura nel 2008, e del rapporto Cepej 2012. Per comprendere il livello di produttività ed efficienza della giustizia civile Lepre, che opera “sul campo” come magistrato ordinario dal 1997, applica a queste fonti quantitative metodologie statistico-matematico. Lo fa con una razionalità espositiva che rende questo saggio non un atto di difesa corporativa di una magistratura sovente auto-indulgente, ma un documento utile per comprendere una delle componenti essenziali della vita economica e sociale italiana, inquadrata in una ottica comparativa con il resto d'Europa.

I giudici civili italiani, presi singolarmente, non sono improduttivi. La media delle sentenze procapite è di 129 all’anno, più 169 procedure di altro tipo. Il problema è che il carico effettivo è pari a 1.100 fascicoli procapite. “Il carico medio – scrive Lepre – è più del triplo di quello che dovrebbe essere”. Il giudice italiano è negli standard – anzi, spesso li supera – europei. Il nodo è la struttura organizzativa e il numero di procedimenti. La struttura organizzativa è più fragile. Nel nostro Paese ci sono 16 giudici (fra ordinari e onorari) ogni 100mila abitanti; in Spagna 27, in Francia 55 e nel Regno Unito 52. C’è, poi, la marea dei procedimenti: quelli civili e commerciali non contenziosi sono cinque volte più di quelli spagnoli e dieci volte più di quelli spagnoli. In questo contesto, il giudice opera secondo le proprie caratteristiche personali. L’elemento interessante è che Lepre mostra come non esista correlazione fra carico di fascicoli e produttività del magistrato. Nel senso che la produttività è indipendente dalla mole di lavoro posta sulle sue spalle. Il che chiarisce quanto sia sbagliata una visione “tayloristica” dell’amministrazione della giustizia: oltre un certo livello non è tecnicamente possibile andare.

L’autore dimostra l’assenza di una correlazione fra la produttività del giudice e il numero di udienze. Questi due fenomeni appaiono utili perché consentono di ripensare alla giustizia civile non in termini di filosofia politica e del diritto, ma in termini di efficienza economica e organizzativa. Perché moltiplicare il numero di udienze, mettendo in moto la macchina burocratica e gli uffici con l’andirivieni dei fascicoli, quando non è tecnicamente fattibile una decisione? Non è meglio concentrarli? E quanto è fattibile l’avvio di un dibattito realistico sugli strumenti alternativi per dirimere le questioni di diritto civile? Nella seconda parte del saggio, con uno stile prudente e deciso, Lepre formula una proposta innovativa: gli arbitrati giurisdizionali, fatti dagli avvocati e dagli stessi magistrati all’interno e per conto del tribunale. Con il risultato di una riduzione dei tempi e l’introduzione di una sorta di autofinanziamento del tribunale stesso, a cui andrebbe – come istituzione – la maggioranza dei proventi di ogni decisione presa.

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