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Questo articolo è stato pubblicato il 19 dicembre 2014 alle ore 08:23.
L'ultima modifica è del 19 dicembre 2014 alle ore 08:44.

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La sentenza della Corte di giustizia europea che stabilisce (rovesciando un precedente verdetto del 2011) che un ovocita umano non fecondato può essere brevettato non ha alcun carattere giuridico né scientifico. Ha una valenza esclusivamente bioetica.

E che i giudici non se ne siano accorti mi pare grave. Se poi se ne fossero davvero accorti, è più che grave, direi scandaloso, perché sarebbe ormai la prova provata che il valore fondamentale della biomedicina (quello della gratuità) è stato travolto dal valore fondamentale del mercato, quello del profitto. È davvero preoccupante.
Credo sia bene perciò mettere le cose in maniera più chiara per comprendere la posta in gioco. Qui non è in ballo il rispetto che si deve alla scienza – un rispetto che per me è sacrosanto -, né meno che mai il rispetto a quel peculiarissimo e fondamentale lavoro che è quello degli scienziati, senza dubbio indispensabili per il progresso umano. È che come i medici operano prima per guarire il malato e poi (solo poi) per incassare il dovuto onorario, così gli scienziati operano e devono operare prima per allargare l'orizzonte del sapere umano, poi (e solo poi) per ottenere la giusta ricompensa per il lavoro svolto. L'etica della medicina e della scienza (cioè la bioetica) viene prima della “bioeconomia”. Questo è l'errore di questa sentenza: si antepone la bioeconomia alla bioetica.

Il principio in gioco in questa vicenda è infatti esclusivamente etico: il corpo umano, in ogni sua parte, non può né deve mai essere occasione di speculazione e di lucro. Come non può essere comprato o venduto il corpo nella sua interezza (se non riattivando l'aberrazione storica della schiavitù) così nemmeno un organo, nemmeno un dente, nemmeno una singola cellula può essere comprata e venduta, se non umiliando quella persona da cui proviene l'organo, il dente o la singola cellula vincolandola ai meccanismi economici del mercato: meccanismi che hanno una loro legittimità sì, ma solo quando hanno per oggetto le cose (e peraltro non una legittimità totale, dato che siamo tutti consapevoli che alcuni beni, come quelli ambientali e spesse volte anche quelli artistici,vanno ritenuti “fuori commercio”), ma che non hanno legittimità alcuna quando si pretenda che a loro oggetto ci sia la stessa vita umana. Credo sia doveroso non lasciarsi fuorviare da quanto scrivono i giudici europei e cioè che si possono brevettare solo quegli ovociti (ovviamente manipolati) che non potrebbero mai svilupparsi in embrioni umani potenzialmente capaci di essere inseriti in utero femminile e portati fino alla nascita. L'oggetto del contendere non è qui la difesa degli embrioni (che va promossa anche quando la loro creazione in provetta non avvenga a fine di lucro); è piuttosto la difesa della vita contro la pretesa che da essa e dalla sua manipolazione tecnologica possano derivare profitti economici, in linea di principio incalcolabili. I brevetti, infatti, si giustificano (a volte con molta fatica!) quando difendono pure creazioni dell'ingegno umano, non quando l'ingegno umano mosso dall'interesse economico cerca di penetrare nei meccanismi del vivente per alterarli e per trarre profitto esclusivo da queste alterazioni.

La ricerca scientifica e la sua nobiltà dipendono esclusivamente dalla sua gratuità, intesa nel senso che nessun essere umano possa essere escluso dalle conoscenze acquisite dagli scienziati, né dai potenziali benefici che da queste conoscenze possano derivare. Brevettare una cellula umana, sia pure dopo averla sottoposta a sofisticate manipolazioni di carattere biotecnologico, significa invece esattamente il contrario: inserire nel mondo sociale la forma più estrema dell'esclusione, che non è quella economica o etnica, ma quella che nega la possibilità stessa di sapere.

Non lasciamoci tentare dall'ultimo sofisma, quello di chi insiste nel dirci che la scienza per progredire ha bisogno di enormi quantità di denaro, che solo la brevettazione può garantire. Non solo la scienza, ma tutti gli altri grandi sistemi sociali hanno bisogno di danaro: ne ha bisogno la scuola, la sanità, lo sport, la tutela dell'ordine pubblico, la promozione dei beni culturali. Conosciamo quanto sia difficile reperire risorse per ciascuno di questi sistemi. Ma la loro autenticità riposa sul medesimo principio: essi vanno offerti a tutti (a seconda delle esigenze di ciascuno) e devono essere considerati condivisi o, almeno di principio, condivisibili. È solo il danaro (e il sistema che lo governa) che sfugge a questa logica. Non dimentichiamocelo mai.
Vincenzo Paglia è arcivescovo e presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia

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