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Questo articolo è stato pubblicato il 28 dicembre 2014 alle ore 13:16.

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Le previsioni, si sa, non sono verità rivelate. Spesso lasciano il tempo che trovano ma a volte fanno riflettere. Pur confermando Stati Uniti, Cina e Giappone in testa alla classifica delle 10 maggiori economie del mondo, seguite da Germania, Gran Bretagna e Francia con l'Italia all'ottavo posto, le ultime del CEBR di Londra guardate in prospettiva ribadiscono anche la precarietà degli attuali equililbri e il declino apparentemente inarrestabile dell'Occidente.

Tempo 10 anni, nel 2025, la Cina supererà gli Usa e l'India il Giappone con un un anno di anticipo. Ma il sorpasso che dovrebbe dare all'Europa intera e prima ancora ai diretti interessati più da pensare riguarda la Germania: complici invecchiamento della popolazione e decrescita demografica, combinati con un euro debole, la maggiore economia della moneta unica e del continente nel 2030 potrebbe scivolare al secondo posto, surclassata da quella britannica di ritorno agli antichi splendori ma da sempre fuori dalla moneta unica e ora anche in odore di divorzio dall'Ue.

Valutazione spericolata e inattendibile? Può darsi ma poco importa. Importa invece che, a torto o a ragione e sia pure di traverso, il CEBR affondi il dito in una delle grandi piaghe dell'eurozona, che si prepara ad affrontare nel 2015 forse l'anno più difficile e insidioso della sua storia, possibile spartiacque tra rilancio e rottura.

Tutti i nodi di sei anni di crisi mal gestita, di guerre di religione, integralismi ed egoismi parossistici, fiducia e solidarietà reciproca atterrate, stanno venendo al pettine. In un contesto paradossale: prima era il rigore assoluto nei conti pubblici il presunto ma indiscutibile toccasana, ora sono diventate le riforme strutturali il nuovo totem da adorare. Nessuno contesta l'importanza cruciale dell'uno e delle altre ai fini del rilancio dell'economia e della competitiività. A patto che non diventino due cattedrali nel deserto delle altre politiche. L'assolutismo ideologico applicato in modo cieco ha trasformato infatti una crisi bancaria prima nella crisi dei debiti sovrani, poi in una crisi di crescita, quindi in una crisi politica europea dagli sbocchi al momento ignoti.

Ancora ieri Wolfgang Schauble insisteva sulle «riforme strutturali che non hanno alternative se si vuole tornare a crescere» e metteva in guardia la Bce di Mario Draghi dal lanciare misure di quantative easing che includano l'acquisto di titoli di Stato. «La Bce decide in modo indipendente ma la disponibilità di denaro a buon mercato non deve contribuire a intaccare l'impegno riformista in alcuni paesi».

Il ministro delle Finanze tedesco si schiera dunque con la Bundesbank di Jens Weidmann, che non vede un serio rischio deflazione, denuncia invece l'implicita mutualizzazione dei rischi sovrani annunciando azioni legali se Draghi si risolverà, come sembra, al grande passo. Semplicemente perché a sua volta, non vede alternative.

Non è il braccio di ferro in corso ma la non-Europa che gli sta dietro che impressiona e preoccupa. Per molti aspetti non è niente di nuovo ma dopo il mercato finanziario che si è rinazionalizzato con la crisi, l'Unione bancaria fatta accuratamente solo a metà, il mercato unico che arretra invece di espandersi esattamente come il bilancio pluriennale Ue, il piano Juncker da oltre 300 miliardi di investimenti che appare più un gioco di prestigio che una solida promessa viene naturale chiedersi su quale retroterra e quali durature strutture di contorno possa oggi contare la moneta unica.

La profonda crisi di fiducia attuale non è soltanto il prodotto degli egoismi scatenati del ricco Nord, è anche il frutto avvelenato di ignavia e furbizie autolesioniste del Sud. Cui però va anche fatta la tara. Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia, i paesi della troika, cominciano a raccogliere i dividendi dei sacrifici ma non per questo ripudiano il riformismo come ossessivamente teme Berlino.

In compenso però il loro ritorno della crescita non serve a fermare la spettacolare ascesa dei movimenti populisti ed euroscettici che tendono a spodestare i partiti tradizionali. Mettendo a rischio in prospettiva la volontà dei futuri Governi di mantenere gli impegni presi a Bruxelles. Paradigmatico il caso di Syriza in Grecia: se vincesse le elezioni, potrebbe essere il primo di una lunga serie di accaniti contestatori.

Per il patto di stabilità e le sue regole, il vero test potrebbe però arrivare dalla Francia, più che dall'Italia. Perchè dal 2009 Parigi ne viola il dettato anti-deficit eccessivi e in marzo rischia una multa di oltre 4 miliardi. Perché pretende che la valutazione degli squilibri sia globale e non individuale: in breve, anche la Germania deve ridimensionare i suoi surplus per aiutare la crescita europea se chiede agli altri riforme e cure dimagranti. Perché la sua intesa con Berlino è ai minimi storici. Perché infine il Front Nazional di Marine Le Pen risulta dai sondaggi il primo partito francese.

Nel mondo globale l'Europa non ha alternative. Nessuno può illudersi di tirare dritto da solo e con successo: nemmeno la Germania, la superpotenza attuale che si trascina dietro fragilità strutturali irrisolte e riforme non fatte a dispetto delle apparenze. Ma per ritrovare bussola e spirito di famiglia l'Unione ha urgente bisogno di collanti, solidarietà economica e politica prima di tutto, che invece per ora non è disposta a darsi. Se andrà avanti così, tra dogmi, steccati e incomprensioni sempre più diffuse prima o poi si ritroverà a raccogliere i propri cocci.

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