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Questo articolo è stato pubblicato il 05 gennaio 2015 alle ore 08:08.

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Se non avesse sollevato tanto in alto la barra delle ambizioni e delle aspettative, il semestre di presidenza italiana dell'Unione europea avrebbe potuto concludersi come i tanti che l'hanno preceduto dopo la riforma del Trattato di Lisbona: senza infamia e senza lode. E senza scandalizzare nessuno.

Da tempo infatti, da quando nel 2009 è stata creata la figura del presidente permanente del Consiglio europeo, incarnata prima dal belga Herman Van Rompuy e ora dal polacco Donald Tusk, le presidenze nazionali rotanti hanno perso peso e significato, si sono trasformate in una sorta di orpello istituzionale, che teoricamente dovrebbe gratificare chi le detiene ma di fatto si riduce a un esercizio di mediazioni faticose e senza gloria, dove la burocrazia spesso soverchia ogni velleità politica.
Sei mesi fa l'Italia è arrivata all'appuntamento forte dei successi di importanza storica del passato, ottenuti però in un'altra Europa: più piccola e omogenea, più motivata e consapevole dell'enorme valore aggiunto del proprio progetto integrativo. Fu infatti il colpo di mano dell'Italia di Bettino Craxi, che nel 1985 al vertice di Milano mise in minoranza Gran Bretagna, Danimarca e Grecia, a dare il via alla riforma dell'Atto Unico, cioè al Trattato che sette anni dopo avrebbe dato vita al grande mercato europeo senza frontiere.

Cinque anni dopo, nel 1990, fu sempre l'Italia, questa volta guidata da Giulio Andreotti, a posare al vertice di Roma, ancora una volta nonostante il no della Gran Bretagna, la prima pietra del processo che si sarebbe concluso 9 anni dopo con l'introduzione della moneta unica, l'euro.
Con questi precedenti alle spalle, un'Europa in profonda crisi di identità e di futuro, un leader giovane, fresco di nomina e ansioso di entrare da protagonista nel salotto buono della politica europea, era naturale che l'Italia di Matteo Renzi sognasse di lasciare un'altra impronta storica nel destino di un progetto di integrazione continentale in perdita di colpi eppure più necessario che mai nel mondo della globalizzazione e delle destabilizzazioni multiple e sempre più ravvicinate.
Sognava di condurre l'Europa oltre le aride secche dell'economia, della finanza, dei teoremi rigoristi, di farle ritrovare un'anima politica e il consenso della gente, un nuovo senso di direzione e di appartenenza: l'Unione politica per farla tornare a esistere come realtà positiva dentro e fuori dalle mura di casa.

Forse voleva procurarsi solo un po' di buona propaganda o forse non aveva ancora preso bene le misure dell'Europa con cui doveva fare i conti e dell'Italia che, in questa Europa, da decenni ha perso posizioni e influenza politica ed economica.
Fatto sta che in questi sei mesi appena conclusi, l'Italia di Renzi ha svolto più che onorevolmente il lavoro di routine della presidenza, quello decisional-legislativo, in particolare sui fronti della lotta all'evasione fiscale, per un ambiente più pulito, strade più sicure, trasporti più efficienti e Ogm.
Non è invece riuscita a mettere in pista nessuna nuova iniziativa politica né a far compiere all'Unione nessun salto di qualità per affrancarla dal grigiore, dal disorientamento e dalla profonda malfidenza reciproca in cui si trascina, incattivita, ormai da troppi anni. Non è riuscita a fare squadra con la Francia di Francois Hollande né a intendersi più di tanto con la Germania di Angela Merkel. Men che meno con la Spagna di Mariano Rajoi o la Polonia dell'allora premier Tusk.

Anche le grandi e per molti aspetti sacrosante battaglie sulla crescita economica, sull'occupazione e sulla flessibilità delle regole e dei patti europei hanno registrato solo il rumoroso festival delle parole. Per i fatti, se mai ci saranno, bisognerà aspettare i prossimi mesi.
Il piano Juncker per far ripartire lo sviluppo in Europa con investimenti per 315 miliardi in tre anni partendo da un capitale cash della Bei di 5 e da garanzie di 16 dal bilancio Ue, più che a una credibile operazione di ingegneria finanziaria assomiglia per ora al gioco delle tre carte.
Sulla flessibilità delle regole, il grande cavallo di battaglia della presidenza italiana, bisognerà attendere la comunicazione della Commissione Juncker entro la fine del mese per sapere quali saranno gli effettivi margini di manovra in più per i bilanci nazionali. I segnali lanciati dall'ultimo vertice Ue di Bruxelles in dicembre non sembrano molto aperturisti. Al contrario.

Anche il rinvio di tre mesi, che la Commissione Ue ha concesso a Italia, Francia e Belgio prima di emettere il giudizio definitivo sulle rispettive leggi di stabilità, al momento costituisce solo una presunta prova di flessibilità delle regole: bisognerà aspettare la verifica di marzo, la sentenza finale di Bruxelles prima e poi dei ministri dell'Eurogruppo per capire se davvero le maglie del patto di stabilità saranno o no un po' allentate e come.
In definitiva, a questa Europa alla deriva di se stessa nessuno, nemmeno la Merkel, oggi potrebbe illudersi di poter imprimere all'improvviso uno strattone benefico capace di restituirle coesione e vigore. Nel suo semestre Renzi non ha innestato la marcia indietro perché in realtà non ha mai potuto ingranare la marcia avanti. Il che non ha impedito all'Italia di assolvere al meglio i compiti della sua presidenza Ue, nei margini consentiti dall'Europa attuale.

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