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Questo articolo è stato pubblicato il 06 gennaio 2015 alle ore 09:28.
L'ultima modifica è del 06 gennaio 2015 alle ore 11:06.
L'errore più grande che potremmo commettere, in questi giorni di attesa sui risultati delle elezioni greche, è di credere che il problema del debito di quel Paese sia simile a quello degli altri Paesi indebitati dell'Eurozona. Questo errore si scorge in alcuni commenti che, prendendo spunto dalle difficoltà della Grecia, invocano la necessità di un piano di redenzione del debito sovrano europeo senza avere soluzioni credibili in tasca.
Il caso della Grecia, se mai, dimostra che una ristrutturazione anche ampia del debito pubblico può essere inutile. La Grecia è un Paese tecnicamente fallito, il cui debito sovrano è (quasi totalmente) nelle mani delle istituzioni internazionali europee, principalmente Fmi, Efsf e Esm. L'Italia, la Spagna e gli altri Paesi indebitati dell'Eurozona, invece, si finanziano sul mercato e hanno piani di rientro dal debito ancora credibili. Come possiamo lamentarci delle agenzie di rating e chiedere alla Bce il Quantitative easing (cioè il trasferimento sulla Bce del nostro debito sovrano) se, nello stesso tempo, discutiamo di un piano di redenzione del debito europeo?
L'Europa ha, a mio parere, la grave responsabilità di avere accettato la ristrutturazione coordinata del debito greco troppo tardi, ma questa ristrutturazione è avvenuta nel 2010. Da allora il Paese ha ricevuto quasi 250 miliardi di fondi a tassi di favore e i creditori hanno subito un haircut del 50% sul valore del debito. Si tratta di un'altra prova che la “ no bail out close” dei trattati europei è poco credibile. Forse si poteva fare di più. Probabilmente la Troika ha sopravvalutato la capacità dell'economia greca di riprendere la strada della crescita e avrebbe dovuto consentire al governo greco un sentiero di recupero del disavanzo fiscale più lento, ma sarebbe illusorio pensare che i problemi dell'economia greca derivino solo da un eccesso di rigore fiscale o che i cittadini greci avrebbero più soldi in tasca se la Troika non fosse intervenuta. Chi pensasse questo dovrebbe chiedere semplicemente l'uscita della Grecia dall'Eurozona, una prospettiva che lascerebbe il governo greco privo di risorse e che anche Syriza non ritiene utile.
Il fallimento della Grecia non ha risolto la crisi del Paese, nonostante il ritorno alla crescita del Pil. La sostenibilità del debito greco è incerta, nonostante la ristrutturazione. Fa bene Syriza a chiedere una rinegoziazione degli accordi con la Troika? Fa bene l'Europa a chiedere, viceversa, il rispetto di quegli accordi? Il problema è principalmente politico e deve essere affrontato come un evento specifico dell'economia greca. Il governo in carica ha sottoscritto accordi che il prossimo governo potrebbe rifiutare. È un'eventualità che deve essere accettata in ogni democrazia e che gli economisti chiamano “incoerenza temporale”. In generale, ogni nuovo governo ha convenienza a ripudiare il debito pubblico esistente perché ciò consente una riduzione delle imposte, ma proprio perché tutti riconosciamo la convenienza del ripudio, la sostenibilità del debito sovrano è problematica, soprattutto in un sistema semi-federale come l'Eurozona.
Il rispetto dei patti con i debitori sarebbe una soluzione errata se ciò fosse incompatibile con la sostenibilità del debito e il ritorno alla crescita, nonostante le riforme strutturali. Ma l'enfasi va posta sulle riforme strutturali. La domanda per i politici greci (ma anche per quelli italiani e spagnoli) è: «Avete un piano credibile ed efficace per riportare l'economia su un sentiero di crescita in uno scenario economico normale, cioè privo di tensioni sui mercati e in assenza di aiuti straordinari dall'Europa?». Le privatizzazioni, la riduzione della spesa pubblica, il recupero dell'evasione fiscale, la rimozione delle barriere alla concorrenza sono le ricette della Troika. Molti ritengono che queste siano misure insufficienti (o inopportune) in una fase recessiva, ma esistono ricette alternative valide per il medio-lungo periodo? La soluzione non può essere solo il ritorno al disavanzo fiscale. L'Europa deve procedere verso una riforma costituzionale che consenta di mobilizzare più risorse a favore dei Paesi in difficoltà, ma non illudiamoci che ciò significhi più libertà di spesa da parte dei governi nazionali, o libertà di rinegoziare impegni già presi, o l'indisponibilità a risolvere i nodi strutturali all'origine delle divergenze economiche tra il Nord e il Sud del continente.
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