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Questo articolo è stato pubblicato il 06 gennaio 2015 alle ore 09:25.
L'ultima modifica è del 06 gennaio 2015 alle ore 11:18.

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Appena ho appreso della morte di Pino Daniele, ho pensato subito a un altro grande napoletano, Massimo Troisi. Tutti e due amici. Tutti e due profondi innovatori. Tutte e due scomparsi in un lampo, per un infarto. Continua pagina 18
Un grande dolore. Ho conosciuto Pino Daniele nel 1977. Allora ideavo e conducevo in Rai L'Altra Domenica.

Avevo sentito di questo ragazzo che mescolava la musica napoletana con il jazz, il blues, il rock e che suonava, in un locale di Piazza del Municipio, per un pubblico composto anche da militari e da marinai americani. Mi sembrava interessante. E, devo dire, per tutti questi tratti biografici simili ai miei, era scattata anche una sorta di identificazione: in non poche cose mi ritrovavo in lui.
Decisi di mandare una troupe dell'Altra Domenica, che allora era una specie di telegiornalone dello spettacolo, a Napoli. Il mio collaboratore Raffaele Cascone si recò a trovarlo. Quel giorno andò molto bene. Lui aveva appena scritto una serie di grandi pezzi: in particolare, ricordo che ebbe l'occasione di presentare ‘Na tazzulella ‘e cafè . Un brano che, poi, avremmo ritrasmesso con grande frequenza anche in radio, io e Gianni Boncompagni, durante la trasmissione Alto gradimento.
Fin da allora Pino Daniele aveva una personalità ben precisa e una fisionomia di grande livello. Basti pensare che, a poco più che vent'anni, aveva già scritto canzoni come Terra mia e Napule è (quest'ultimo, un capolavoro composto a diciotto anni e tenuto per un poco nei cassetti) mostrando una vena musicale inedita e inaspettata. Nonostante la giovane età, si profilava già la sua identità – e il suo futuro – di grande innovatore della canzone napoletana d'autore. Una identità che, poi, si è realizzata appieno. In effetti, Pino Daniele è riuscito a fare dialogare e a contaminare la canzone napoletana con il jazz, il rock e il blues, superando la tradizione e facendone qualcosa di totalmente nuovo. La sua originalità è stata proprio questa. Da un lato discendeva dalla vena melodica dei grandi autori napoletani. Ma, allo stesso tempo, ha avuto la forza e l'inventiva, il talento e anche la disciplina per emanciparsi da loro. E, così facendo, per rivoluzionare e modernizzare questa musica. Tanto che, non a caso, rispettava la musica tradizionale napoletana, ma teneva molto a non essere confuso con essa.

In fondo, aveva lo stesso atteggiamento verso i grandi maestri della musica tradizionale napoletana che Massimo Troisi aveva verso Eduardo. Massima considerazione, ma anche il desiderio di costruirsi un proprio – originale – percorso. Ed entrambi – sia Massimo sia Pino – ce l'hanno fatta. Di Pino Daniele colpiva la dimensione musicale completa: amava la chitarra, cesellava i testi, si sentiva un musicista. Studiava incessantemente lo strumento. Tre giorni fa, a sera inoltrata, ho visto un programma su Rai Due dove lui – in occasione di una reunion con alcuni suoi grandi musicisti come Tullio De Piscopo e James Senese – conduceva una disamina minuziosissima della sua musica. Le influenze che ha subito. I musicisti di riferimento. Che cosa aveva fatto, con quella sua musica. Dove era arrivato. E dove, con quella musica, avrebbe dovuto - e potuto – andare. Lui, di solito così restio a parlare di sé, della sua vocazione e della sua professione, in quella occasione invece entrava nel dettaglio, chiariva punti oscuri, si interrogava, scioglieva dei dubbi. Insomma, scopriva le carte in maniera del tutto insolita e del tutto inattesa. Mi sono turbato. A un certo punto, mentre lo stavo guardando, mi è sembrato quasi un consuntivo dopo trent'anni di locali e di stadi, di studi di registrazione e di solitudine da musicista. In realtà, era qualcosa di più che un consuntivo. Tutto ciò si è dimostrato quasi un presagio.

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