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Questo articolo è stato pubblicato il 07 gennaio 2015 alle ore 07:58.
L'ultima modifica è del 07 gennaio 2015 alle ore 09:18.

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Pubblichiamo uno stralcio della presentazione del nuovo libro di Carlo Bastasin “Saving Europe, Anatomy of a Dream” illustrata dall'autore al convegno ASSA/AEA di Boston.
Vorrei spiegare perché chiamo “Guerra di Interdipendenza” quello che sta succedendo in Europa dallo scoppio della crisi. Non lo faccio a cuor leggero. Non bisognerebbe abusare della categoria della guerra nel linguaggio comune.

In particolare quando si discute di crisi finanziarie nelle quali generalmente il “nemico” o meglio l'antagonista non è di fronte a noi, ma tra di noi.
Tuttavia i costi economici della crisi europea, misurati in termini di perdita di produzione rispetto al trend, sono nella scala degli eventi bellici. Sono superiori per esempio ai costi economici di tutte le guerre americane combattute dopo l'11 settembre, Iraq e Afghanistan inclusi. Si tratta per di più di un costo inflitto e patito interamente all'interno dei confini europei.
Ma la vera ragione per cui nella nuova edizione di “Saving Europe” uso il termine “guerra” è che sia l'origine della crisi, sia la sua deludente gestione, sono legate a un concetto bellico: la visione degli stati nazionali come autosufficienti anziché come interdipendenti. L'autosufficienza, cioè la non dipendenza dai rapporti economici con i Paesi stranieri, è un principio antico caro ai teorici dello Stato chiuso, lo espresse con chiarezza e intenti pacifici Johann Gottlieb Fichte nel 1800, legato appunto all'eventualità – a quei tempi, certezza - di guerra e quindi alla necessità per uno Stato di non dipendere dall'estero.
L'autosufficienza è stato il criterio ordinativo della gestione della crisi: sia nei salvataggi nazionali di banche globali, sia nella costruzione di una nuova governance economica centrata sui requisiti di equilibrio della finanza pubblica e delle bilance dei pagamenti. Una volta che queste due bilance sono in pareggio, ogni Paese è sterilizzato finanziariamente, non ha bisogno di importare capitali dall'estero, è una forma moderna di “Stato chiuso” nel mezzo però di un'area economica integrata che dovrebbe promuovere la libera circolazione delle risorse verso le allocazioni migliori.

L'interdipendenza non è un concetto familiare alla politica nazionale. Ogni governo vuole rispondere ai propri elettori. La rielezione non dipende direttamente dalle condizioni dei cittadini stranieri. O almeno così si crede. Inoltre le nostre categorie politiche conoscono soprattutto l'interdipendenza dell'economia reale: il commercio, la mobilità degli individui, gli investimenti diretti, gli spill-over dei consumi. Canali di sviluppo comune che si sono rivelati meno vigorosi del previsto negli ultimi venti anni di integrazione europea, ridimensionati dall'emergere della globalizzazione.
Ciò che non sappiamo ancora inquadrare è invece l'interdipendenza finanziaria. Nove dei 15 Paesi del mondo che hanno maggiore leva esterna sono nell'euro-area. La dipendenza dalla finanza estera è maggiore che nelle economie in via di sviluppo. La somma delle posizioni estere nette dei tre maggiori paesi creditori e dei tre maggiori debitori è quadruplicata in dieci anni e ora equivale al 40% del pil dell'euro area. La misura equivalente dell'interdipendenza commerciale è dieci volte inferiore.

L'interdipendenza finanziaria non è solo enorme per dimensione, è anche molto più rapida di ogni procedura di decisione parlamentare. Infine è vistosa nelle sue conseguenze politiche, avendo impatto sul finanziamento degli Stati. Molti credono che quello che è avvenuto in Europa dimostri la crisi dell'idea europea. Dimostri cioè che le basi del progetto erano minate dalla diversità dei paesi, delle culture civiche e delle preferenze politiche dei cittadini. Ma a me sembra dimostri al contrario il fallimento dell'idea di Stato basata sull'autosufficienza e la necessità di apprendere il significato storico della condivisione delle sovranità e quello umano dell'interdipendenza.
Carlo Bastasin “Saving Europe, Anatomy of a Dream”, prefazione di Barry Eichengreen, editore Brookings Institution Press – Washington – gennaio 2015

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