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Questo articolo è stato pubblicato il 22 gennaio 2015 alle ore 07:20.
L'ultima modifica è del 22 gennaio 2015 alle ore 08:53.

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Il 15 gennaio, la Banca centrale svizzera ha inaspettatamente abbandonato la difesa del cambio del franco a quota 1,20 rispetto all'euro. La decisione sembra motivata soprattutto dal timore che l'atteso programma di acquisto di titoli pubblici da parte della Bce potesse contagiare la Confederazione con il virus dell'inflazione, temuto più di quello della peste in Svizzera quanto in Germania. Il conto sarà pagato dalle industrie manifatturiera e del turismo.

La decisione della Banca nazionale svizzera evidenzia le difficoltà che incontrano Paesi di piccole e medie dimensioni nel condurre politiche economiche autonome in un mondo caratterizzato da grande mobilità di capitali, beni e persone. Al tempo della cosiddetta prima globalizzazione di inizio Novecento, l'impero asburgico era, per molti aspetti, logoro, minato da tensioni etniche, sociali e politiche. Faticava ad adeguarsi al nuovo secolo. Malgrado ciò, la grande unione monetaria e doganale dell'impero garantiva, alla maggioranza dei sudditi, stabilità e benessere sconosciuti ai piccoli Paesi al di fuori di esso. Lo si comprese solo dopo la dissoluzione dell'impero nel 1919. Lo smembramento dell'Austria-Ungheria in tanti piccoli Stati sovrani, ciascuno con la propria moneta e la propria dogana, diminuì l'efficienza della distribuzione delle risorse in Europa rallentando la crescita, anzitutto dei nuovi piccoli Stati ma anche dell'intero continente, in contrasto con il dinamismo degli Stati Uniti. I nuovi Paesi erano di dimensioni troppo anguste sia per attuare efficaci politiche economiche autonome sia per avere una politica estera che non facesse riferimento a questa o quella delle grandi potenze. Se ne accorsero per prime le nuove repubbliche di Austria e di Ungheria, la cui coabitazione nell'impero era stata carica di tensioni, anche per la diversità dei rispettivi interessi economici, ma che trovarono la nuova situazione di indipendenza ben più difficile da gestire della precedente.Un secolo dopo, il mondo è diventato ancora più piccolo, i singoli popoli e Paesi sono più interdipendenti di quanto fossero nel 1914.

La Danimarca, fuori dall'euro, è oggi in prima linea nel fronteggiare un attacco speculativo contro la corona, sinora strettamente agganciata alla moneta unica europea. Ma non sono solo i Paesi di minori dimensioni a soffrire limiti alla propria sovranità economica. Per fare un solo esempio: il lancio del Quantitative easing da parte della Banca centrale statunitense produsse un indesiderabile apprezzamento del real brasiliano, tanto da indurre a più riprese il ministro delle Finanze Guido Mantega a denunciare “guerre monetarie”, senza peraltro possedere efficaci mezzi di difesa.

Vi sono oggi, in tutti i Paesi dell'area euro, vivaci minoranze che reclamano l'abbandono della moneta unica. La recente vicenda del franco svizzero dovrebbe fare riflettere sia i governi sia le opinioni pubbliche. Un Paese, anche di medie dimensioni, che abbandonasse l'euro sarebbe “nave senza nocchiero in gran tempesta” assai più di quanto furono negli anni Venti e Trenta del secolo scorso Austria, Ungheria, Cecoslovacchia dopo la dissoluzione dell'unione doganale e monetaria, oltre che dei vincoli politici, che le avevano unite prima del 1919.

Ciò vale anche per la Germania, dove covano - nemmeno troppo sotto traccia - tentazioni di abbandono dell'euro. La scelta che le circostanze impongono oggi a Berlino è tra l'essere il leader, carico di responsabilità oltre che di vantaggi, di un'area che produce oltre un quinto del reddito mondiale, e quella di ritirarsi nella torre di un'economia robusta ma non particolarmente dinamica che genera il 5% del Pil globale. Un'uscita dall'euro produrrebbe tra l'altro - Svizzera insegna - una rivalutazione del “nuovo marco” difficilmente sostenibile per un'economia orientata all'esportazione.

La creazione dell'euro ebbe motivazioni sia economiche sia, soprattutto, politiche. Sul piano dell'economia, la crisi del 1992 aveva reso evidente la fragilità del mercato unico in assenza di un'unione monetaria. Sul piano politico, si volle esorcizzare il pericolo, sentito allora dagli stessi tedeschi, del riapparire di una “Grande Germania” nel cuore dell'Europa. Oggi siamo consapevoli, meglio di vent'anni fa, che l'unione monetaria va completata con un'ulteriore integrazione, anzitutto fiscale. Tocca alla Germania, come toccò nel primo dopoguerra agli Stati Uniti, dare prova di lungimiranza nel perseguimento dei propri stessi interessi lanciando una iniziativa politica di ampio respiro che rovesci l'attuale tendenza alla ri-nazionalizzazione dell'Europa, frutto avvelenato della crisi dei debiti sovrani, e apra la strada a una più stretta integrazione del Vecchio Continente. L'alternativa all'uscita dall'euro è solo questa. L'attuale vivacchiare gonfio di risentimenti e incomprensioni non è un'opzione per il lungo periodo.
gt14@duke.edu

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