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Anche se frutto di urgenze la riforma delle pensioni non va demolita

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l'analisi

Anche se frutto di urgenze la riforma delle pensioni non va demolita

La riforma delle pensioni in Italia ha reso il sistema previdenziale più semplice, equo, sostenibile e trasparente. È una strategia su cui costruire, non va demolita. Non è il caso di entrare nel merito della sentenza della Corte costituzionale. Ma bisogna tenere presente che se è stata l’urgenza delle pressioni economiche a far scattare l’intervento, il problema alla radice è a lungo termine e la riforma ha agito su entrambi i fronti.

Secondo il recente rapporto Ocse, l’Italia sta invecchiando rapidamente, con un tasso di fecondità ben al di sotto della media e una speranza di vita tra le più alte dell’Ocse. Così, il rapporto tra la popolazione di oltre 65 anni e quella in età attiva (il cosiddetto indice di dipendenza degli anziani) è sceso da 4,2 nel 1980 a 2,8 nel 2014, e stando alle proiezioni nel 2050 toccherà l’1,5. Ma c’è un altro problema nell’immediato. Nel 2011, la spesa per le pensioni era il 9% del Pil, tra le più alte dell’Ocse (solo Spagna e Grecia spendono di più) e 1,75 volte la media Ocse del 5,2%. In Germania era del 6,9% e in Svezia 6,2%. Questo costo elevato è in parte dovuto ai pre-pensionamenti. L’età pensionabile effettiva in Italia è una delle più basse dell’Ocse e la partecipazione al mercato del lavoro della popolazione tra i 55 e i 64 anni resta relativamente bassa nonostante un aumento dal 27,7% nel 2000 al 40,4% nel 2012.

La riforma del governo tecnocratico di Monti puntava a riavvicinare la spesa pubblica in generale, e quella pensionistica in particolare, alla media Ocse. I cambiamenti hanno dato inizio a una riforma generale. Tra le principali misure c’erano: 1) l’accelerazione delle riforme degli anni ’90, la cui attuazione è stata lenta per questioni politiche; 2) l’innalzamento dell’età pensionabile; 3) l’avvio del processo di parificazione dell’età pensionabile per uomini e donne; 4) il miglioramento dei meccanismi di adeguamento in futuro.

Due domande sorgono spontanee: era l’unica direzione possibile per le riforme? E sono state delle buone riforme? In teoria, i politici avevano solo tre risposte possibili da combinare per far fronte al calo dell’indice di dipendenza degli anziani. Potevano:

1) aumentare la spesa pensionistica per coprire i costi extra. Se quell’aumento è finanziato interamente dai contributi, significa che la spesa pensionistica più alta viene finanziata dai lavoratori;

2) ridurre gli assegni mensili medi per evitare un corrispettivo aumento della spesa pensionistica. In tal caso, il costo di adeguamento va a ricadere sul tenore di vita dei futuri pensionati;

3) innalzare l’età della pensione (senza un corrispondente aumento delle pensioni) per tenere a bada l’aumento della spesa. Anche in tal caso il costo di adeguamento ricade sui futuri pensionati, ma non sul tenore di vita, bensì con una minore durata della pensione.

Un buon programma dovrebbe avere due caratteristiche: la prima, probabilmente userà più di uno di questi strumenti e possibilmente tutti e tre; la seconda, scandirà il processo di ristrutturazione in modo graduale e prevedibile; le pensioni dovrebbero garantire una pianificazione a lungo termine, perciò è meglio evitare ogni scossone a breve termine. Se i politici ignoreranno i futuri problemi prevedibili (e previsti), vi saranno due effetti indesiderati: la spesa pensionistica aumenterà più del dovuto e una crisi finirà per portare a una riforma dall’oggi all’indomani.

Gli effetti congiunti della crisi economica del 2008 e di quella dell’eurozona sono stati uno stress test troppo pesante per l’Italia che aveva bisogno di riforme rapide e profonde. L’elevata spesa pensionistica era dovuta a un accesso generoso ai trattamenti, a un aggiustamento inadeguato all’aumento della speranza di vita e a riforme incomplete. A concorrere alla spesa elevata sono stati i contributi più alti dell’Ocse (33% nel 2012 rispetto alla media del 19,6%).

Un problema grave si è trascinato per tanti anni ed è stato rinviato ai governi futuri, per poi toccare in eredità al ministro del Lavoro Elsa Fornero, del governo Monti tra novembre 2011 e aprile 2013. Le principali riforme Monti-Fornero prevedevano tutte e tre le risposte di cui sopra. Gli elevati tassi contributivi hanno precluso la risposta 1, tranne che per i lavoratori autonomi che si sono ritrovati contributi più alti. Perciò il problema andava affrontato perlopiù combinando la risposta 2 (assegni mensili inferiori) alla 3 (posticipazione dell’accesso ai trattamenti pensionistici). È bene chiarire che non ci sono altre risposte possibili.

La risposta 2 prevedeva misure per ridurre gli assegni mensili accelerando l’attuazione di riforme già legiferate, insieme a un aggiustamento automatico dei livelli del trattamento alla speranza di vita, adeguandoli alla storia contributiva di una persona.

La risposta 3 (ritardare l’accesso al sistema previdenziale) prevedeva l’elevazione dell’età pensionabile a 66 anni nel 2012 per uomini e donne dipendenti pubblici e per tutte le donne dal 2018 e l’aggancio dell’età pensionabile alla speranza di vita a partire dal 2013, con conseguenti aggiornamenti automatici.

È opinione comune che elevare l’età pensionabile aggravi la disoccupazione giovanile. La teoria e gli esempi internazionali dimostrano come tale argomentazione sia sbagliata. Se fosse vera, i Paesi dove si va in pensione più tardi avrebbero tassi di disoccupazione giovanile più alti, cosa che non avviene.

Una riforma da applicare in fretta non può non incorrere in delicati problemi di transizione. Per l’Italia la situazione degli esodati – i lavoratori che hanno lasciato il posto di lavoro con la prospettiva di andare in pensione nel giro di pochi anni – ha sollevato un problema particolare. L’Inps aveva detto al Governo che il numero di lavoratori coinvolti sarebbe stato esiguo. Di fronte al grande numero di esodati (le stime variano da 65mila e 350mila) il governo Monti ha trovato una soluzione per 130mila, e nel 2014 la legge ne ha tutelati degli altri. Con il senno di poi, il Governo avrebbe dovuto muoversi più in fretta una volta capita la vera entità del problema. Ciò detto, in futuro, qualunque aggiustamento per risolvere questo problema non dovrebbe minare la tanto sudata sostenibilità.

Se alcune delle riforme hanno avuto scarsi effetti sulla spesa pensionistica, hanno però migliorato il sistema previdenziale in altri modi, in particolare i suoi vincoli con il mercato del lavoro, compresa una maggiore semplificazione e trasparenza, una migliore flessibilità su quando andare in pensione, e un’armonizzazione delle regole per uomini e donne, A livello strategico, queste riforme era giuste e indispensabili. Erano giuste perché hanno avvicinato l’Italia alle best practice internazionali – riforme nella direzione giusta anche in assenza di una crisi fiscale. Anche se l’Italia aveva già avviato un’intraprendente riforma delle pensioni, non era andata abbastanza avanti o non abbastanza in fretta.

Le riforme erano indispensabili anche per ragioni fiscali. In un mondo ideale sarebbero state introdotte gradualmente nei decenni precedenti. Poi, nel 2011 il problema è diventato troppo grave e urgente per avviare una riforma graduale. C’è una tensione intrinseca tra l’orizzonte a lungo termine delle buone pensioni e le pressioni a breve dei politici. Le riforme Fornero hanno anteposto gli interessi a lungo termine ai vantaggi politici immediati. Così oltre a essere giuste, sono state anche coraggiose.

(Traduzione di Francesca Novajra)

Nicholas Barr insegna Economia pubblica alla London School of Economics; Peter Diamond è Institute Professor Emeritus al MIT di Boston e nel 2010 ha vinto il premio Nobel per l'economia

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