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Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2015 alle ore 06:36.

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C’è addirittura una quarta via per l’impresa sociale in Italia? L’interrogativo appare, benché sullo sfondo, nei dati del rapporto Iris Network sull’impresa sociale in Italia e soprattutto scorrendo il testo della delega al governo per la riforma del Terzo settore che, nel suo articolato, prevede anche il riordino dell’istituto giuridico relativo a quelle imprese che perseguono obiettivi di “interesse generale”. La terza via è, invece, quella che colloca l’impresa sociale nel bacino delle istituzioni non profit - o, significativamente, Terzo settore - che sviluppano, soprattutto grazie alla cooperazione sociale, un modello in grado di produrre “in via stabile e continuativa” beni di “utilità sociale” in alcune nicchie del welfare.

Un percorso, quello dell’impresa sociale non profit, tutt’altro che concluso se è vero che, secondo le stime Iris Network, esistono altre 82mila associazioni e fondazioni potenzialmente orientate in senso imprenditoriale in nuovi settori come cultura e sport (64% del totale). Un contributo importante anche in termini di crescita economica e occupazionale. Se questa parte di non profit si qualificasse come impresa, alla industry della cooperazione sociale - che già fattura 10,1 miliardi di euro, ha investimenti per 8,3 miliardi e crea 513mila posti di lavoro - si sommerebbero altri 35 miliardi e 340mila occupati.

Ma se il dibattito si chiudesse all’interno di questo perimetro non si comprenderebbe perché viene assegnata tanta rilevanza a questioni come l’allentamento del vincolo alla distribuzione degli utili e la misurazione dell’impatto sociale. Temi che monopolizzano il dibattito tra policy makers, studiosi e addetti ai lavori, ma che, a ben guardare, dovrebbero essere risolti nel profilo istituzionale del non profit: non lucrativo e orientato al beneficio sociale.

E qui subentra la quarta via, un’opzione di sviluppo basata sulla ricerca di fertilizzazione incrociata tra attori non profit e imprese di capitali, dando vita a piattaforme cooperative da cui scaturiscono nuove imprese ibride. Non la separatezza tra organizzazioni che alimentano circuiti di redistribuzione come imprese di capitali che destinano parte del surplus a fondazioni che finanziano soggetti non profit e pubbliche amministrazioni che allocano risorse per beni di interesse collettivo come stazioni appaltanti. Si tratta piuttosto di sistemi economici che individuano come elemento costitutivo il valore sociale, soprattutto su scala locale. Più che le pratiche sono rilevabili i contesti generativi di questo modello emergente: per esempio, imprese comunitarie che operano all’interno di smart grid energetiche, distretti trainati da imprese coesive che mettono a valore asset materiali e intangibles localizzati, catene di coproduzione di beni e servizi dove il prezzo incorpora elementi di valore sociale e ambientale. In tutti questi casi misurare l’impatto e la redistribuzione del valore diventa cruciale, perché sono esperienze che stanno nel mezzanino tra iniziative bottom-up e top-down.

Per alcuni interlocutori tutto questo rappresenta un vero e proprio “quarto settore”, alimentando aspettative sul fronte regolatorio e forse anche confusione sul piano terminologico. I processi sono comunque in atto e sono relativamente maturi. Se dunque l’impresa sociale si candida a fare da società veicolo, allora sarà chiamata a deviare, almeno in parte, dalla terza via per ribadire la leadership di un percorso di innovazione sociale che altrimenti saranno altri soggetti - la finanza d’impatto in primis - a organizzare come un nuovo spazio di economia e socialità.

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