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Questo articolo è stato pubblicato il 14 giugno 2015 alle ore 08:14.

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Le imprese hanno una anima? Sì. Le imprese che funzionano hanno un’anima solida e coesa. Non ne hanno due, slabbrate e disunite. Nel caso di A2A la fusione fra il blocco milanese e quello bresciano – sotto il profilo strategico-industriale e nell’altrettanto sensibile dimensione delle appartenenze civiche – non ha funzionato. Adesso, nell’algida logica dei numeri e nella delicata sfera dei sentimenti comunitari qualcosa – molto - sta cambiando. A2A, da impresa formata dalla sommatoria e dalla giustapposizione di due realtà – Aem e Amsa più Asm - sta diventando un organismo unico e unitario. Economico, tecnologico e finanziario. Ma, ancor prima, identitario e politico-culturale. Una mutazione – o, meglio, un completamento – del suo patrimonio genetico, in grado di portare l’azienda a diventare l'aggregatore delle utility lombarde. Iniziamo con ordine. «Il nuovo corso di A2A? Certo che si avvertono novità sostanziali. Il colloquio, adesso, esiste. Ed è costante. C’è un interessamento reale alle esigenze degli imprenditori e delle famiglie bresciane», dice Marco Bonometti, presidente di Aib, l’Associazione industriale bresciana. La voce roca di Bonometti, uomo di fabbrica, descrive bene il senso di ricucitura che l’attuale dirigenza di A2A, formata dal presidente Giovanni Valotti e dall’amministratore delegato Luca Valerio Camerano, sta provocando in una Brescia che – spiritualmente orfana di Renzo Capra, l’ingegnere che aveva fatto della vecchia Asm un gioiello – ha a lungo sofferto la fisionomia assunta da A2A. Il pensiero da uomo di impresa di Bonometti richiama quello di un analista finanziario come Javier Suarez di Mediobanca, secondo cui «il problema storico principale di A2A è stata la mancanza di reale integrazione fra Milano e Brescia, che per esempio si manifestava nell’assenza di un amministratore delegato. Adesso, il mandato dei due soci principali, i Comuni di Milano e di Brescia, è quello di procedere alla costruzione di una sola realtà. E le cose vanno in questa direzione. La dirigenza ha una visione nitida, coerente con le indicazioni strategiche degli azionisti». Il tutto, dunque, in un meccanismo virtuoso fra soci e management. «Il superamento del duale e la fine di una logica spartitoria – spiega il sindaco di Brescia Emilio Del Bono, un cattolico liberale del Pd di antica ascendenza martinazzoliana – hanno restituito coerenza industriale e prospettiva strategica alla società. È stata fondamentale la comunione di intenti che, da subito, abbiamo sviluppato con il sindaco Giuliano Pisapia». Il meccanismo è stata la comprensione che soltanto una maggiore efficienza industriale – lasciando da parte ogni particulare – avrebbe prodotto più utili e un maggior apprezzamento del titolo, con un conseguente incremento dei dividendi potenziali, essenziali negli equilibri finanziari delle casse comunali (oggi questa remunerazione pesa per un decimo sul bilancio della parte corrente del Comune bresciano). Fra il 2009 e il 2014, secondo la riclassificazione dei bilanci operata da R&S Mediobanca, i dividendi distribuiti a Brescia e a Milano sono stati pari, per ciascuna amministrazione comunale, a 285,2 milioni di euro. Sostiene Maurizio Baruffi, capo di gabinetto del sindaco Pisapia, che ha rappresentato il Comune di Milano all’ultima assemblea di A2A: «Si tratta di una evoluzione concordata fra azionisti pubblici di un investimento che, per Brescia, ha una densità emotiva particolare, dato che quella è la azienda per antonomasia della città, mentre per Milano A2A è una delle aziende della città. Al di là di questo differente aspetto psicologico, per entrambi i Comuni questa azienda resta una fonte di redditi essenziali. E, anche, una leva per partecipare allo sviluppo economico di una parte essenziale del Paese, come la Lombardia e come il Nord». La trasformazione industriale – ex pluribus unum – sta avvenendo rimodellando l’organizzazione. Non ci sono più, come prima, due direttori generali, in qualche maniera riferibili a Brescia e a Milano. C’è un amministratore delegato a cui fa capo il nuovo modello di impresa. Sono, infatti, state costituite cinque business unit: generazione, ambiente, reti, mercato ed espansione internazionale. Nella spinta espansiva – di un piano industriale di sviluppo e non di ridimensionamento – la base della finanza di impresa viene utilizzata per sostenere un piano di investimenti che, nei prossimi cinque anni, dovrebbe prevedere interventi per poco meno di 2,1 miliardi di euro (+ 40%). In qualche maniera, dunque, ha una cifra organizzativa, una valenza finanziaria e una natura industriale il nuovo corso di A2A, che può contare su una base tecno-produttiva storica complessa: è vero che, stando ai bilanci riclassificati da R&S Mediobanca, gli investimenti materiali sono scesi dai 293 milioni di euro del 2009 a 247 milioni del 2010, risalendo dai 183 milioni del 2011 ai 275 milioni del 2012, riassestandosi dai 227 milioni del 2013 ai 237 milioni del 2014. Ma è altrettanto vero che gli investimenti materiali in percentuale delle immobilizzazioni materiali lorde iniziali sono calati dal 5,8% del 2009 al 3,8% del 2010 e al 2,4% del 2011, tornando nel 2012 al 3,1% e poi calando di nuovo nel 2013 al 2,3% e nel 2014 al 2,4 per cento. Dunque, la prospettiva strategica si trova all’incrocio fra le risorse con cui effettuare gli investimenti, l’identità tecno-manifatturiera composta da specializzazioni nella generazione e nel teleriscaldamento e un ampliamento non egemonico del proprio perimetro. Sotto quest’ultimo aspetto, anziché il classico modello di take-over su piccole e medie utility alla cui razionalità economica non corrisponde una adeguata sensibilità civico-politica, la nuova A2A ha scelto una strategia di multi-brand, prospettando la conservazione dei marchi e di margini di autonomia. Una ipotesi sarebbe un accordo con Lgh, la utility di proprietà dei Comuni di Rovato e della Franciacorta, Pavia e Lodi, Crema e Cremona. Alcuni colloqui riservati sarebbero in corso fra tutte le controparti coinvolte. Entro un paio di settimane si potrebbe arrivare a un primo risultato di fattibilità – per quanto ancora astratta e tutta da definire – o no dell'avvio di un percorso verso la effettiva costituzione di una grande utility lombarda. Al di là degli esiti dei colloqui – e delle formule tecniche ipotizzabili per una ipotetica aggregazione, carta o cash - un tema di consolidamento e di crescita dimensionale in Lombardia si pone. “Il problema della conservazione dei flussi dei dividendi – conclude Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia – è vitale per questi Comuni almeno quanto quelli dell’intensità di capitale e della costruzione di economie di scala sui rifiuti e sulla generazione. La frammentazione non ha più senso. E il superamento soft dei campanilismi, attraverso la politica della molteplicità dei marchi, sembra avere un aspetto di efficacia economica e di astuzia strategica”. Vedremo se, in un Paese complicato come l’Italia, alla fine funzionerà.

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