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Questo articolo è stato pubblicato il 12 luglio 2015 alle ore 08:14.

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«Dove ha trovato i soldi per la Lamborghini?», ha chiesto il giudice della Corte di Chaoyang al giovanotto uscito miracolosamente illeso dallo scontro con un coetaneo alla guida di una Ferrari mentre gareggiavano sotto un tunnel di Pechino. «Vostro Onore, io e mio padre li abbiamo guadagnati investendo in borsa in questi anni», ha risposto, serafico, l’emulo cinese degli eroi di Fast & furios. Ecco, finisce anche così la febbre della borsa cinese che ha contagiato imprese e famiglie, diventando infine una sberla in pieno volto nella complessa opera di riforma del Paese. Un gioco portato alle estreme conseguenze, in cui i cocci li sta raccogliendo lo Stato centrale, pur di evitare il peggio.

Lo scivolone che ha preso l‘abbrivio lo scorso 12 giugno finendo la corsa a oltre -6, bruciando in un mese 3,5 miliardi di dollari, bloccando metà dei listini, lancia un’ ipoteca sul prossimo piano quinquennale, quello destinato a tracciare il cammino dell’economia cinese dal 2016 al 2020.

È tempo di lavorarci su, saranno anni cruciali in cui si dovrà per davvero cambiare il modello economico orientandolo sui consumi interni e sui servizi.

Tutto ciò non potrà essere possibile senza una riforma dei sistemi finanziari borsistici, bancari e monetari, un nodo al quale le autorità di Pechino si stanno dedicando con grande metodo. Salvo rimanere spiazzati, come è successo la scorsa settimana, dalle terribili performance della borsa per contrastare le quali non basta l’idea dei 3mila miliardi di dollari di asset a disposizione del sistema per fronteggiare le emergenze. Inondare il sistema di liquidità non è la soluzione più valida per il futuro.

C’è infatti una lunga sfilza di novità in fieri che rischiano di regredire sotto l’impulso delle perdite catastrofiche che si sono verificate con modalità tipiche da borsa occidentale. In Cina però il mercato è immaturo, gli investitori stranieri devono passare sotto le forche caudine delle quote assegnate e gli stessi cinesi per comprare azioni di Alibaba quotata a Wall Street devono affidarsi a pochi grandi operatori.

Quindi la speculazione regna nella terra del comunismo con caratteristiche cinesi, così il Governo intento ad adeguare i mercati agli standard occidentali è intervento per evitare l’irreparabile.

L’elenco delle pie intenzioni è lungo: le Initial public offerings erano finalmente state riammesse e avevano trovato le regole, al pari del delisting volontario e della stock connection Shanghai Hong Kong che permette uno scambio borsistico in doppia direzione. Le azioni privilegiate, la maggior trasparenza dei prospetti, l’obbligo per le banche di dichiarare gli investimenti in wealth management fanno il resto.

Insomma, un patto sulle regole del gioco è saltato a causa del baratro di perdite in meno di un mese. E con lo Stato che programmava una serie di passi indietro costretto a dover intervenire pesantemente, a cominciare dalle società statali. C’è inoltre l’assicurazione sui depositi partita in aprile che dovrebbe servire proprio a ottenere una conversione del renminbi a distanza più ravvicinata.

La situazione è molto difficile, adesso. Il rilassamento della politica monetaria con la serie di tagli ai tassi e ai ratios non è servita a molto. Anzi. E l’idea di un mercato finanziario più evoluto che si abbini a una società di servizi e consumi al centro di tutto si allontana, per giunta in un frangente in cui l’economia reale continua a frenare.

Le ricadute politiche ed economiche da default borsistici posso essere pesanti, ma ancora oggi i cinesi non hanno molte strade per investire i loro soldi. Il mercato immobiliare ha funzionato da traino per venti anni ma ormai è una strada impraticabile, quello azionario ha appena mostrato il volto feroce. Permettere di investire i propri risparmi all’estero per un Paese come la Cina non è un’opzione praticabile, ma, oggi, dove trovare nuovi strumenti per le risorse necessarie a sostenere il consumo interno e a contribuire alla crescita della nazione?

Le autorità di Pechino sanno che le riforme finanziarie devono andare avanti, quindi si preparano a un aumento delle quote di investimento dall’estero, la quota QFII passerà da 80 miliardi di dollari Usa a 150, mentre l’area pilota in renminbi vedrà il programma RQFII esteso da Hong Kong a 13 paesi o Regioni, tra cui Londra e Singapore. Questo è un segnale necessario a ridare fiducia agli investitori e ai mercati internazionali. E intanto, in sordina, l’autorità di vigilanza sulla borsa ha chiesto a circa un migliaio di società la cui quotazione è stata sospesa per eccesso di ribasso di ritornare all’ovile nei prossimi giorni.

Chi sarà il vero vincitore? Probabilmente le stesse banche cinesi e i loro depositi sui quali si potrebbero riversare i delusi dal crollo del mercato immobiliare prima e dell’azionario ora.

Ma il serpente si morde la coda: i tassi sui depositi in Cina sono così bassi, ridicoli, da tenere alla larga anche quelli con le migliori intenzioni.

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