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Questo articolo è stato pubblicato il 06 settembre 2015 alle ore 08:13.

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L’annuale incontro dei governatori delle banche centrali a Jackson Hole nel Wyoming si è chiuso nel segno dell’incertezza sul futuro dell’economia mondiale. Anche quanto detto da Draghi giovedì scorso si giustifica con un’accresciuta incertezza. Le previsioni sono instabili, aumenta il divario tra le stime prodotte dai diversi analisti, pubblici e privati. L’incertezza è alimentata da fattori contingenti di difficile interpretazione (Che impatto avrà sulla produzione e consumi il crollo della borsa cinese? Come interpretare la svalutazione dello yuan? Sono affidabili le statistiche?). Questi temi riempiono le pagine dei giornali. Ma, oltre la congiuntura, l’incertezza deriva forse da qualcosa di più profondo: la sensazione che l’economia mondiale si sta muovendo in territorio largamente inesplorato. È difficile trovare nel passato utili analogie con l’economia e la geopolitica odierne. Cerchiamo di capire perché.

Per quasi duecento anni, sino all’ultimo quarto del secolo scorso, la crescita dell’economia planetaria è stata trainata dai pionieri della rivoluzione industriale ottocentesca (Europa, sue proiezioni oltremare, Giappone). Il resto del mondo cresceva più lentamente, dando luogo a una “grande divergenza” nei livelli di benessere tra Ovest ed Est, Nord e Sud (nel 1820 Cina e India insieme producevano quasi la metà del Pil mondiale, nel 1980 il loro contributo si era ridotto al 10 per cento). È il mondo nel quale sono cresciute e si sono socializzate le generazioni di coloro che oggi hanno più di cinquant’anni.

Nell’ultimo trentennio del ventesimo secolo quel mondo è stato sconvolto da una rivoluzione epocale: la fine della “grande divergenza”. Molti Paesi che oggi chiamiamo emergenti, tra i quali i giganti demografici Cina e India, hanno enormemente accelerato il proprio ritmo di crescita. L’assetto, non solo economico, del mondo precedente ne è stato travolto. A mano a mano che il peso degli ultimi arrivati allo sviluppo economico cresceva, aumentava il loro contributo all’economia mondiale: Cina e India insieme producono oggi quasi un quarto del reddito globale. La forza di questi nuovi protagonisti è emersa nella crisi del 2008-9: il loro contributo è stato indispensabile nel contenere la caduta della produzione e della domanda globali.

L’adattamento delle società occidentali al nuovo assetto dell’economia globale nato dalla fine della “grande divergenza” è tuttora incompleto, dopo la breve ubriacatura della “fine della storia”. Ma già potrebbe profilarsi una nuova situazione inedita dell’economia mondiale. Nel medio termine il maggiore rischio attuale per lo sviluppo globale è che molti Paesi emergenti, raggiunto un livello “medio” di reddito per abitante, fatichino a proseguire la crescita oltre quella soglia mentre, al tempo stesso, le economie più sviluppate non riescano a generare un’adeguata crescita della produttività.

I Paesi emergenti sono diversi l’uno dall’altro. Ha poco senso parlarne collettivamente. Molti di essi sono però arrivati, con strutture e politiche economiche diverse, a un livello di sviluppo che obbliga ad affrontare la transizione tra due diverse fasi dello sviluppo. A livelli molto bassi di reddito, la crescita si realizza anzitutto con investimenti intensivi accompagnati dal trasferimento di masse di lavoratori da impieghi agricoli a bassa produttività a quelli nei settori manifatturieri. Oltre una certa soglia di reddito per abitante, tra i 12-15mila dollari (25-30% di quello Usa), si prosciuga la riserva di lavoro nelle campagne, cresce la domanda di beni di consumo raffinati, lo sviluppo sempre più da tecnologie innovative. Per proseguire la crescita oltre la soglia del “reddito medio” è necessario puntare più sulla crescita della produttività che sull’impiego intensivo di capitale. Non era mai successo che tanti Paesi dovessero contemporaneamente affrontare questa non facile transizione. La Cina è un caso a parte per la dimensione, la peculiarità delle sue delle istituzioni e l’ampiezza del successo ottenuto sin qui. Ma anch’essa ha raggiunto uno stadio di sviluppo oltre il quale una crescita, benché fisiologicamente più lenta che nel passato, richiede importanti trasformazioni.

La crescita nei Paesi più sviluppati, quelli che per quasi due secoli hanno trainato l’economia mondiale, sta accelerando. Negli Stati Uniti il Pil cresce a ritmo piuttosto robusto e così nel Regno Unito. Le prospettive dell’area euro migliorano. La Commissione prevede un aumento del Pil dell’1,9% nel 2016, seppure con grandi differenze tra i diversi Paesi membri. Se così fosse e se si considera il reddito pro capite, la differenza di crescita rispetto agli Stati Uniti sarebbe relativamente modesta.

Ci sono però tre problemi che ridimensionano il contributo che le economie sviluppate possono dare alla crescita mondiale: il loro peso è molto diminuito e pertanto non riescono a sostenerla come nel passato, l’interdipendenza tra le varie aree del globo è tale che un eventuale forte rallentamento dei Paesi emergenti avrebbe importanti ripercussioni anche su quelli sviluppati. Infine, la crescita della produttività sta rallentando. Se quest’ultima tendenza si consolidasse, porrebbe grandi problemi non solo ai Paesi più sviluppati ma all’intera economia mondiale.

Le prospettive per l’economia del nostro pianeta sono tuttora piuttosto soddisfacenti se viste nella prospettiva secolare (sono e saranno sempre deludenti rispetto all’urgenza dei bisogni, soprattutto quello di ridurre ulteriormente la povertà). Ma l’incertezza che ha dominato quest’estate potrebbe radicarsi oltre la congiuntura che ne è la causa prossima. Potrebbe derivare da una condizione inedita, e quindi più difficilmente prevedibile e gestibile: la difficile conversione di molti Paesi emergenti verso una struttura economica che consenta una robusta continuazione della loro crescita, accompagnata da un rallentamento della produttività nei Paesi avanzati che richieda anche a essi sostanziali mutamenti nelle politiche economiche e nella stessa organizzazione sociale. Nel mondo che potrebbe profilarsi, le politiche che hanno mitigato la crisi non serviranno più. I banchieri centrali hanno fatto quanto potevano, con buona dose di coraggio e qualche innovazione, toccherà ad altri trovare politiche innovative per i problemi da risolvere nei prossimi anni. Condizione per una fruttuosa ricerca di soluzioni nuove, al di fuori della “taglia unica”, sarà il superamento della stantia contrapposizione di questi anni tra approcci keynesiani e neo-liberisti.

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