Sublime. La premiazione degli atleti dopo la partita di volley Brasile-Italia è un distillato di antropologia: gli azzurri ridevano e si complimentavano tra loro per la medaglia d’argento, i brasiliani, con l’oro al collo, piangevano. Un confronto, non uno scontro, di civiltà tra Europa e Sud America.
Il Brasile ha vinto anche un’altra gara, di cui si è parlato molto ma che non conferiva medaglie. L’ha vinta contro i parrucconi che un mese fa prefiguravano un’edizione catastrofica dei Giochi olimpici. Invece no, è andato tutto abbastanza bene. Niente attentati dell’Isis, nessuna zanzara Zika, nessun atleta in gara negli sport acquatici contaminato dall’inquinamento della baia di Guanabara.
Da oggi a Rio de Janeiro torna quella di sempre, «quella dell’aria condizionata al massimo e della birra stupidamente gelata». Così la descrive Adriana Calcanhotto, una delle migliori interpreti della Musica popolare brasiliana.
Torna quella di sempre anche secondo Andrew Zimbalist, un economista americano che ha prodotto uno studio lungo e articolato sull’eredità economica, sportiva e sociale che incassano le sedi olimpiche.
Una eredità in chiaroscuro, con prevalenza per i toni neri. Le città che hanno ospitato i giochi negli ultimi vent’anni non hanno ottenuto i benefici di lungo termine sperati. La litania che induce sempre i policy maker a convincere gli abitanti della città che riceve migliaia di atleti, giornalisti, operatori, delegazioni da tutto il mondo è sempre quella: «Patiremo qualche disagio nella fase d’avvio, quella delle costruzioni, della nuova viabilità, ma sarà tutto nostro e soprattutto a nostra disposizione». Il sindaco di Rio, Edoardo Paes, prima delle Olimpiadi, nel timore di un collasso della città aveva invitato i carioca a non uscire in auto, e per indorare la pillola, aveva enumerato i vantaggi del post Giochi. Che però difficilmente si realizzeranno, a leggere le trappole più ricorrenti che hanno imbrigliato gli impianti e lo sport.
Nel suo libro «Circus Maximus, il grande affare dei Giochi olimpici», Zimbalist dimostra il contrario. I 400 miliardi di dollari spesa a Pechino, nel 2008, i 50 spesi dalla Russia per i Giochi invernali di Sochi, i 200 che spenderà il Qatar nel 2022 per i mondiali di calcio, così come quelli spesi dal Brasile negli ultimi anni non si sono dimostrati un investimento proficuo.
Qualcuno ne ha beneficiato, certo, ma sono i soliti noti, ovvero gli organizzatori, i costruttori, le grandi imprese, i comitati d’affari. In altre parole le fasce di popolazione ad alto reddito. Ma gli sportivi veri, le classi medie e quelle più svantaggiate no. Per loro è andata sempre molto meno bene di quanto annunciato. La nuova linea di metropolitana, nel caso di Rio, è l’unica infrastruttura da ascrivere tra gli “attivi”.
Tutto il resto, impianti, alberghi, aumento del turismo, maggiori scambi e investimenti in seguito alla straordinaria esposizione mediatica di un evento olimpico non sono andati a vantaggio della popolazione. È sempre stato così, dice Zimbalist.
Gli impianti ad esempio. José Luiz Del Roio, un intellettuale brasiliano con un’esperienza in Italia da senatore, parte così: «O negocio è o seguente», il fatto è questo: «Troppo speso si sono rivelate cattedrali nel deserto, elefanti bianchi per dirla alla brasiliana».
Anche se va rilevato che il Paese ospitante, negli anni dopo i Giochi, acquisisce una maggiore accettazione dell’altro, gli episodi di razzismo calano, così come il numero di crimini. Migliore anche l’impatto sulla cultura sportiva.
Comunque vada, del dopo Olimpiadi se ne parla già nei botequim (i bar) della città. «Il carioca - scrive Bruno Barba, nel suo saggio antropologico titolato Rio de Janeiro, editore Odoya - è un polemista meraviglioso, quando parla di calcio, di politica, di donne, di musica, è un filosofo da spiaggia appassionato e coraggioso, innovatore, rivoluzionario e anticonformista». Non è escluso che Rio de Janeiro smentisca gli studi di Zimbalist. Chissà.
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