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Dossier Algoritmi e big data entrano nelle aziende: ora il tema è da contratto

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    Dossier | N. 4 articoliL'algoritmo in azienda. Come cambia il lavoro

    Algoritmi e big data entrano nelle aziende: ora il tema è da contratto

    Le recenti vicende di Uber e Amazon hanno avuto il merito di calare nella realtà le tante parole spese in questi ultimi mesi sulla Quarta rivoluzione industriale e l'impatto delle tecnologie di nuova generazione su lavoro, relazioni industriali, sistemi di welfare. Per comprendere il fenomeno degli algoritmi e dei Big Data nei processi produttivi, però, non ci si può fermare a questi esempi per quanto eclatanti. L’utilizzo di modelli predittivi o prescrittivi di analisi e decisione interessa già oggi – e sempre accadrà in futuro – tutto il mondo del lavoro, ben oltre le piattaforme e la tanto discussa gig economy. Algoritmi e big data stanno entrando con forza nelle scelte strategiche di tutte le aziende ben oltre il nostro limitato immaginario della fabbrica del futuro: dal marketing alla produzione e commercializzazione, dalla manutenzione fino alle scelte relative alla gestione e selezione del personale.

    Il principio di fondo di tali pratiche è quello di rendere i processi decisionali più veloci e automatizzati grazie al tipo di informazioni estratte dai dati e al tipo di trattamento a essi applicato. È questo, oggi, il regno degli ingegneri, dei matematici e degli statistici che concorrono a definire i nuovi modelli della cosiddetta impresa 4.0. Meno evidenti, ma ciò nondimeno di grande rilevanza e delicatezza, sono le implicazioni sociali e le conseguenze giuridiche di molte di queste applicazioni nei processi produttivi. Non tutto ciò che la tecnologia consente è infatti possibile per il diritto e i valori che una legge storicamente incorpora al suo interno. E questo spiega la costante attenzione dei legislatori e delle istituzioni comunitarie rispetto a quello che inizia oggi a essere considerato come il nuovo “oro nero”, i giacimenti di dati (dentro e fuori le aziende) che riguardano persone e lavoratori, al punto da richiamare una nascente attenzione verso gli aspetti della people o workforce analytics.

    Un primo aspetto è pertanto relativo alle competenze professionali necessarie per implementare correttamente questi processi di analisi e decisione. Non solo competenze statistiche o matematiche. E tantomeno meramente informatiche. Le figure professionali del Big Data Word intercettano diversi ambiti e settori disciplinari, dovendo la dinamica essere trattata anche con riferimento ai profili organizzativi e più strettamente regolatori. In primo luogo, ma non solo, rispetto alla disciplina europea e interna in materia di privacy e trattamento dei dati. Diventano, quindi, necessarie figure professionali ibride, i cosiddetti “architetti del sistema” dell’impresa 4.0 di cui parla Federico Butera, che sappiano dialogare con i diversi dipartimenti della azienda e con interlocutori interni ed esterni alla stessa. Da qui l’urgenza di portare tempestivamente questi temi, già oggi, nelle aule universitarie e di strutturare percorsi di apprendimento che sappiano realmente rispondere a questa esigenza di interdisciplinarietà superando la logica verticale e autoreferenziale, ancora oggi dominante, che separa dipartimenti, specializzazioni e discipline.

    Il secondo aspetto riguarda la dimensione giuslavoristica dei processi decisionali guidati da algoritmi e Big Data. Qui, diversamente da quanto avviene negli Stati Uniti, partiamo praticamente da zero fatta. Sono solo agli inizi i tentativi di inquadramento di problematiche e criticità (si veda il saggio di Dagnino, “People Analytics: lavoro e tutele al tempo del management tramite big data” nella rivista Labour&Law Issues della Università di Bologna) che, più che il legislatore, dovrebbe invero interessare le parti sociali chiamate ad affrontare questa nuova tematica in sede di contrattazione collettiva. Come capitato recentemente per il lavoro agile e lo smart working interventi legislativi calati dall’alto rischiano solo di complicare i processi di adattamento alla Quarta rivoluzione industriale ostacolando le imprese senza rispondere alle istanze di tutela dei lavoratori. Sono piuttosto le (buone) relazioni industriali il metodo più affidabile per trovare caso per caso, e in logica di prossimità, il giusto equilibro tra interessi contrapposti. Le vicende di Uber e Amazon stanno in effetti a ricordarci come il punto qualificante non sia tanto la regola formale quanto la sostenibilità per le persone coinvolte di un preciso modello di organizzazione del lavoro.

    Affinché le promesse e le potenzialità di Big Data e degli algoritmi possano portare a un vero miglioramento della produzione e del lavoro risulta insomma necessaria, in termini di fattore abilitante dei nuovi modelli d’impresa, di una logica partecipativa tanto nella nuova organizzazione del lavoro quanto nella costruzione delle professionalità del lavoro 4.0 (alternanza, apprendistato, fondi interprofessionali). Cosa possibile, tuttavia, solo a fronte di un reale rinnovamento della rappresentanza e dei sistemi di relazioni industriali che su questi temi si giocano buona parte del futuro e della sfida riformista che da tempo li coinvolge.

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