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Questo articolo è stato pubblicato il 27 luglio 2014 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 27 luglio 2014 alle ore 13:49.

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Narciso e il selfie
Sapete Narciso, quel bel giovane che specchiandosi in un'acqua immota s'innamorava di sé tanto da cadere in acqua per potersi dare un bacio, e annegava? Quel Narciso di cui la psicanalisi ha fatto l'emblema di tutti i narcisismi? Bene, Narciso oggi sarebbe il meno narcisista di tutti, secondo me.
Intanto, lui non si innamora affatto di sé, per il semplice fatto che non capisce di essere lui quell'immagine specchiata nell'acqua, pensa che sia un altro, e di quell'altro si innamora. Commette un errore ottico, direi: non si accorge che l'immagine è solo un'immagine, e non una persona. Tutto qui. Un po' come Dante quando abbraccia per ben tre volte l'amico Casella, dimenticando che è solo un'ombra, non ha corpo. Lo aveva già fatto Ulisse con la sua mamma, quando lei viene a parlargli dal mondo dei morti. Errori di sostanza, certo. Ma errori veniali, tutto sommato, e molto commoventi. Più sul genere del bovarismo, semmai, più affini al credere vere le favole, allo scambiare per vita la letteratura.
E il selfie?
Intendo quello straordinario, e nuovissimo, gesto di fotografar se stessi, a cui abbiamo attribuito questa snella ed efficace parolina inglese: selfie. Intraducibile, unica. Il selfie sì, è narcisismo puro.
Allora, mi spiego: niente di male nel fotografarsi, per carità. Il fine è comprensibilissimo e anche degno: mandare agli altri, amici e parenti per esempio, una propria foto non avendo nessuno sotto mano che in quel momento ce la possa scattare. Benissimo. La mirabile capacità del fai da te, massima dimostrazione di autonomia. Tanto più che gli strumenti che abbiamo a disposizione oggi ce lo consentono: ti piazzi il cellulare in faccia e sfiori il tasto, fatto! Nulla di così diverso dall'autoscatto, in fondo.
Ma abbiamo mai visto qualcuno che si fa un selfie? Voglio dire, ci siamo mai fermati a guardare attentamente una persona nell'atto di farsi una foto col proprio cellulare?
Facciamolo. Sostiamo un momento, e osserviamo. Prendiamo un ragazzo, sui venticinque anni. È seduto sul gradino di un parco. Jeans e maglietta. Capelli biondini, corti. Di colpo estrae il cellulare e se lo mette davanti al viso. Un po' in alto. Lo tiene in alto sulla propria testa, col braccio teso e clic, si fa la foto.
Io non so, ma credo che sia quel braccio teso. Propaggine di noi, che non si stacca da noi. Diverso dall'autoscatto, dove la macchina è lontana, è fuori da noi. Qui lo strumento che ci fotografa è legato al nostro corpo, è parte di noi. È come se in noi fosse presente il meccanismo stesso, la macchina che ci fotografa. È diverso.
Ma non so se sia quel braccio teso che mi provoca un leggero disagio, una punta di malessere. No, non è il braccio. È che quel ragazzo si sorride.

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