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Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2014 alle ore 08:16.

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Stare
Mi piace il verbo stare perché va contro tutto il nostro vivere di oggi, in cui non stiamo mai ma fluttuiamo, ci agitiamo, ci disperdiamo in mille rivoli. Lo dico da anni, e mi sentivo molto triste a dirlo solo io. Per fortuna adesso trovo un'intervista di Margaret Mazzantini (sul primo numero di «How to Spend it») in cui lo dice anche lei: «Se c'è una cosa che mi ha insegnato la scrittura è stare. Sprofondare e stare. Una capacità che non appartiene a questa epoca. Siamo tutti connessi dalla mattina alla sera, c'è sempre uno schermo fra noi e gli altri...». Grazie, Margaret.
Stare è non muoversi, è poter contare su radici, o basamenti. Un albero sta. Una casa, una statua stanno. Cose che non vanno via, portate da un vento o da correnti. Cose che non si spostano. Solide, ferme.
Scogli
Ho una passione speciale per gli scogli, che si lasciano battere dal mare in eterno e forse solo levigano un po', col tempo, i loro spigoli e rugosità.
Stare fermi, soprattutto. Leggere e studiare sono questo: stare, stare sulle parole. Soffermarsi, indugiare (forse per questo oggi leggiamo poco, e studiamo ancora meno?). Si può stare su un libro una vita, e su una pagina o su una frase per ore. Si può leggere e rileggere un brano, smembrarlo (o s-branarlo) parola per parola, fino a impararlo a memoria, a imprimerselo nel sangue. L'unica condizione necessaria, per aver rapporti proficui e di senso con un libro (sia esso cartaceo o digitale), è stare. Stare fermi, e stare anche molto chiusi. Dico chiusi al mondo esterno, chiusi agli altri, a ogni contatto: interrompere tutte le comunicazioni, per un certo tempo, per poterli far entrare poi, gli altri e il mondo intero, nella nostra vita, ma poi, e meglio, quando ne saremo usciti arricchiti da quelle parole su cui abbiamo sostato a lungo, soli, e scollegati.
Le parole dei libri esigono il nostro tempo, e la nostra totale dedizione. Che è prima di tutto concentrazione. «Chiusura cognitiva», la chiamava il biologo premio Nobel Luria, augurandosi di non trovare mai articoli interessanti sulle riviste che riceveva, per non dover interrompere i suoi pensieri, le sue ricerche.
Non credo alla meraviglia del multitasking, spacciata per nuova capacità dei nuovi giovani, detti anche nativi digitali. Mi sembra un inganno, che perpetriamo a loro danno. Non credo nel multitasking proprio per il fatto che non permette la lettura, anzi, la impedisce (e un mondo dove non si legge non lo voglio nemmeno prendere in considerazione): se faccio altro, non leggo. Tutto qui.
Fare dieci cose in una, saltabeccando da un sito all'altro, da un'informazione all'altra, da un tweet o sms all'altro, non mi sembra una capacità, semmai un'incapacità: l'incapacità di stare, e quindi, di leggere, studiare e pensare. Se non mi concentro e non sto dentro il pensiero che mi sta nascendo, quel pensiero se ne va. Quindi se non mi concentro, non penso. Anche il pensiero deve fermarsi. O meglio, deve essere fermato. Non ha consistenza, il pensare, se non lo fermiamo: per esempio su un foglio, o su un video. O anche sul tronco di un albero, se preferiamo. Scrivere non è nient'altro che fermare i pensieri, fare in modo che non volino via. Per questo, anche per scrivere, bisogna stare. Proprio come dice Margaret Mazzantini. I pensieri sono, per natura, eccezionali migratori. Transitano, passano. Sono labili, effimeri, sfuggenti. Vi ricordate il Carducci che ci facevano studiare a memoria? «Tra le rossastre nubi / stormi d'uccelli neri, / com'esuli pensieri / nel vespero migrar». In fondo, ci aveva già avvertito lui – solo per via di similitudine, d'accordo, ma l'aveva fatto – che i pensieri migrano, vanno via, «esulano».

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