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Questo articolo è stato pubblicato il 25 aprile 2011 alle ore 10:46.

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«Non so se abbiamo dato un contributo alla proliferazione dei marchi. Di certo per noi l'Igp è stata molto importante. Prima del riconoscimento, avvenuto nel 2002, i nostri fagioli si vendevano a circa 4 euro al chilo. Oggi li vendiamo a 22 euro». Non ha dubbi Mauro Carreri, presidente dell'Igp del Fagiolo di Sorana, frazione di Pescia (Pistoia), sulla valenza del riconoscimento comunitario. Da quando l'hanno ottenuto i 22 produttori toscani hanno visto le quotazioni del loro legume crescere del 450 per cento.

Un exploit che fa passare del tutto in secondo piano i costi di certificazione (i controlli sono svolti dall'Istituto di certificazione etica e ambientale di Bologna) che ammontano a circa 2 euro al chilo.
Il fagiolo di Sorana è prodotto in due differenti tipologie. Il bianco, piccolo e schiacciato, che va consumato come contorno, cotto "al fiasco" dal nome della pentola dal collo stretto nella quale è tradizionalmente preparato; e la tipologia rossa, utilizzata soprattutto nelle zuppe.
Si tratta di un legume di tipo rampicante, che cresce su piante che arrivano fino a 5 metri di altezza e che pertanto richiedono una raccolta a mano e comportano costi di produzione più elevati rispetto ad altre varietà per le quali basta la raccolta meccanizzata.

Dal 2004, primo anno di commercializzazione col marchio Ue, a oggi, il numero di produttori è arrivato a quota 22 mentre la produzione ha raggiunto gli 80 quintali per un giro d'affari di circa 150mila euro.
«Il nostro – aggiunge Carreri – è quasi un club di piccoli produttori a livello amatoriale. Anche la produzione non ha grandi margini di crescita. Tuttavia, il riconoscimento ci ha consentito di fare da traino a molti prodotti alimentari della zona. E, soprattutto, di esaurire ogni anno e in anticipo la nostra produzione».

I fagioli di Sorana prodotti nel 2010 sono già stati tutti venduti. Nelle prossime settimane si seminerà per il raccolto 2011 che non avverrà prima di settembre. Il mercato di riferimento è soprattutto locale e in vendita diretta da parte dei produttori, fatta eccezione per qualche fornitura destinata a pochi ristoranti di Roma, Milano o Firenze. «Le uniche esportazioni – aggiunge il presidente dell'Igp – sono quelle effettuate grazie agli stranieri che vengono a fare acquisti dalle nostre parti».

Ma a cosa serve il marchio Ue e la tutela internazionale a un prodotto che a malapena supera i confini della regione? «A non molto – dice Carreri –. Anche a noi fa uno strano effetto vederci accomunati a giganti come il Parmigiano reggiano o il Prosciutto di Parma. Ma puntavamo ad avere una produzione certificata, e l'unica strada era quella del marchio Ue. L'elenco dei prodotti tradizionali istituito presso le regioni, infatti, si basa sulle autodichiarazioni dei produttori che spesso non sono sufficienti per avere un ritorno di mercato. E questo perché i consumatori associano la qualità di un prodotto ai controlli svolti da un ente terzo. Per questo, anche nel caso di piccole produzioni, il marchio Dop o Igp può fare la differenza». (G.d.O.)

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