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Questo articolo è stato pubblicato il 16 dicembre 2014 alle ore 06:38.
L'ultima modifica è del 16 dicembre 2014 alle ore 08:49.

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Il mantra di Bruxelles e dell’Europa è che gli investimenti sono “la chiave” per la ripresa. Il fulcro della strategia economica della nuova Commissione è il piano per incrementare gli investimenti di 315 miliardi nei prossimi tre anni. Ma la proposta della Commissione è fuorviante, in termini di enfasi e per la struttura di finanziamento proposta.

Il piano, l’iniziativa del presidente Jean-Claude Juncker non costituisce una sorpresa. Con la zona euro bloccata in una recessione apparentemente senza fine, è radicata nel discorso pubblico l’idea che, per una ripresa sostenibile, siano cruciali investimenti di stimolo per la crescita. L’assunto è che l’aumento degli investimenti sia sempre preferibile, perché si aumenta il capitale sociale e quindi la produzione.

Non è detto che, attualmente, sia questo il caso dell’Europa. Le autorità della Ue (e molti altri) sostengono che la zona euro soffra di un “gap di investimenti”. La prova consisterebbe nel deficit annuale di 400 miliardi rispetto al 2007.

Ma il paragone è fuorviante, perché nel 2007 si è raggiunto l’apice della bolla di credito che ha portato allo spreco di un grande ammontare di investimenti. La Commissione lo riconosce nella sua documentazione di supporto al pacchetto Juncker, in cui si afferma che si dovrebbero usare gli anni precedenti all’esplosione del credito come punto di riferimento per i livelli di investimenti oggi auspicabili. Secondo tale misura, il divario negli investimenti corrisponde solo alla metà rispetto a questo.

Purtroppo, anche gli anni precedenti all’esplosione della crisi non sono un buon parametro per l’economia europea attuale, perché qualcosa di fondamentale è cambiato più velocemente di quanto in genere viene riconosciuto: le tendenze demografiche europee.

La popolazione in età lavorativa della zona euro è cresciuta fino al 2005, ma dal 2015 in avanti si prevede invece un forte declino. Dato che la produttività non ha registrato riprese, un numero minore di lavoratori comporta tassi di crescita potenziali nettamente inferiori. E un tasso di crescita più basso significa che è necessaria una quota minore di investimenti per mantenere il rapporto capitale/output.

Se la zona euro avesse mantenuto i tassi di investimento al livello degli anni precedenti alla crisi, si registrerebbe presto molto più capitale rispetto alle dimensioni dell’economia. Si potrebbe essere tentati di dire: e allora? Una maggiore quota di capitale va sempre bene.

Uno stock di capitale sempre crescente in relazione alla produzione, tuttavia, comporta rendimenti sempre più bassi e quindi, nel corso del tempo, sempre più prestiti in sofferenza nel settore bancario. Dato lo stato debole del sistema bancario europeo, accumulare troppo capitale quindi non è un lusso che l’Unione Europea può permettersi.

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