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Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2012 alle ore 07:00.

Una settimana fa eravamo nella terra del gran lombardo: l'ingegner Gadda. Arriviamo in Toscana accompagnati dalla rilettura del libro "Le virtù civiche delle regioni italiane" dell'antropologo del moderno Robert Putnam che, alla fine degli anni 70, fece un viaggio di studio percorrendo gli 870 km che vanno da Seveso, dove era appena successo il dramma ecologico dell'Icmesa, sino a Pertosa sui monti della Basilicata.

Le sue conclusioni furono motivo di orgoglio per l'Italia di mezzo, di cui la Toscana è l'architrave, la regione leader. Qui, scrisse, «siamo dove l'Italia è più Italia». Appare l'Italia delle virtù civiche dei comuni, delle regioni, della coesione, del capitale sociale. Qui il fare impresa, il fare banca, il fare istituzione è forgiato dalla storia. A me tocca raccontare ciò che resta di questo affresco territoriale, trent'anni dopo. Della Toscana e dell'Italia di mezzo, di cui poco si è raccontato a cavallo del secolo, segnato territorialmente dalla questione settentrionale e dalla perpetuante questione meridionale. Per questo la si è raccontata, spesso, più per la sua uniformità politica.

Le regioni rosse dell'Emilia-Romagna e della Toscana han sempre fatto blocco con l'Umbria e le Marche. Griglia di lettura insufficiente. Che ha prodotto la retorica del modello tosco-emiliano, buono per la politica, ma insufficiente per i mutamenti economici. Oggi, a differenza del viaggio di Putnam, si va da Bologna a Firenze in venti minuti con l'Alta velocità che fa da metro. E arriverà anche il traforo autostradale.

Ma sia Bologna che Firenze, Emilia-Romagna e Toscana, cercano lo spazio di posizione e di rappresentazione che vada oltre il modello politico-istituzionale. Si discute sull'opportunità di due città-regione che stanno in una, come a Nord è questione l'asse tra Torino e Milano. Ma lo stress da globalizzazione e crisi induce Bologna e l'Emilia a guardare a Nord, Firenze e la Toscana a farsi leader per ricollocare l'Italia di mezzo, le imprese e i suoi territori nello spazio globale. Per questo la questione toscana mi pare collocarsi sul terreno di come le elite civiche, il capitale sociale, la Toscana borghigiana, e la Toscana dei comuni densi di storia, da Siena, a Pisa ad Arezzo… (non dimenticando che qui ogni campanile ha una citazione nella Divina Commedia o una rappresentazione nei quadri di Leonardo o Piero della Francesca) sono pronti al nuovo spazio di posizione.

Qui in Toscana, dove i distretti economici e produttivi sono stati più distretti che altrove, qui nella Tuscanyshire del turismo dolce e della soft economy, fra le pievi e i monasteri della via franchigena, qui ci si confronta più che altrove con il capitalismo delle reti. Che ha il suo precursore nel patrimonio antico delle Misericordie, che si è fatto solidarietà e associazionismo e terzo settore e oggi si confronta con la crisi del welfare. Un solidarismo antico, che ha prodotto anche un potente sistema cooperativo.

La Toscana, reduce da un lungo percorso che ha metabolizzato l'impatto di essere guelfo o ghibellino sul territorio locale, deve oggi metabolizzare l'adagio "locale-globale". Aprirsi o chiudersi è oggi questione aspra. Capire se quelle virtù civiche ed economiche che vengono dalla storia lunga dell'Italia di mezzo sapranno mettersi in mezzo tra ciò che viene da fuori e il territorio e portare le comunità locali toscane a fare regione-leader e l'eterotopia possibile.

Sullo sfondo portato dal capitalismo delle reti, oltre all'alta velocità, agli aeroporti Firenze e Pisa, e alla spinosa questione dell'Aurelia che si fa autostrada, si delinea la scommessa del corridoio balcanico. Come naturale espansione marittima del corridoio Lisbona-Kiev che passa in Val Susa con non pochi problemi. Parte dalla penisola iberica, da Valencia a Livorno, arrivando ad Ancona per terra, l'eterna incompiuta Grosseto-Fano (e per ferrovia?). Poi di nuovo per mare sino ad arrivare nei Balcani, intercettando l'emergente Turchia. Una idea-flusso interrogante. Con l'austerithy imposta dalla Ue si vedrà se mai verrà finanziata. Ma il presidente della Regione, Enrico Rossi, l'ha assunta come nuovo spazio di rappresentazione. Lui, che già sindaco di Pontedera della mitica Piaggio, di ristrutturazione e traumi tra locale e globale e di metamorfosi se ne intende. Parte dall'idea-flusso per dire al territorio, in primis alle altre regioni Umbria e Marche: è questo il tempo di ragionare assieme con i nostri territori sul futuro dell'Italia di mezzo. La visione politica da sola non basta. Nell'Italia dei mercanti e della banche, che qui sono nate, bisogna capire se il capitale, non quello sociale, ma quello dei flussi finanziari c'è e condivide. Da qui riflessioni non da poco sui leader storici del territorio come Monte Paschi, Carifirenze, le altre casse e banche popolari del tessuto di prossimità delle Bcc. Un po' tutti hanno subito e giocato nel risiko bancario globale che veniva dalla galassia del Nord.

Ci si interroga partendo dalla propria storia. La mostra "Il denaro e la bellezza" organizzata a Palazzo Strozzi, celebra la potenza dei mercanti che si fecero banchieri e ragiona anche sulla decadenza di quell'epoca, sino all'indignazione del Savonarola. Che produsse le leggi sontuarie, quelle che limitavano l'ostentazione della ricchezza. La Firenze del Savonarola come la Cortina di oggi. Lo strozzino al bando, come l'evasore fiscale. Allora, per farsi perdonare, i banchieri pentiti diventarono i mecenati del Rinascimento. E oggi? Sembra dire alle banche di oggi «tornate al territorio, all'economia reale». Allo stesso tempo l'anima profonda del territorio, se c'è, si metta al lavoro. Non solo reagendo ai flussi del capitalismo delle reti.

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