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Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2012 alle ore 07:00.

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Una crescente tensione finanziaria, che non lascia presagire nulla di buono per il futuro. Soprattutto perché rischia di minare la morfologia di un settore che, in piccolo, riproduce i limiti, oltre che i punti di forza, del capitalismo italiano a prato basso. «Per la prima volta – nota Denis Pantini, economista di Nomisma specializzato nell'agroalimentare – un comparto anticiclico come questo ha cominciato a sperimentare una sofferenza profonda, i cui effetti rischiano di essere duraturi». La crisi dei consumi ha intaccato un tessuto composto soprattutto da piccole e da medie aziende che spesso hanno una fisiologia intrinsecamente debole.
«Nel secondo trimestre del 2011 – rileva l'economista di Nomisma – le sofferenze bancarie sono aumentate del 28% rispetto al trimestre precedente. Si tratta di un aumento impressionante».

Dunque, l'attuale passaggio è segnato da un problema di finanziamento del circolante e degli investimenti. Una emergenza finanziaria che, peraltro, si innesta su una tendenza produttiva segnata negli ultimi anni dalla debolezza: secondo l'Istat, nel 2006 la produzione industriale dell'agroalimentare cresceva ancora dell'1,6% e nel 2007 dello 0,7%, ma già nel 2008 scendeva dello 0,6% e nel 2009 dell'1,5%, per risalire del 2% nel 2010 e per tornare di nuovo in terreno negativo (-1,7%) nel 2011.
Questo mix di rallentamento produttivo macro e di tensione finanziaria micro pone una questione non da poco. Che, in qualche maniera, potrebbe fare presagire la corrosione della base produttiva e occupazionale del comparto.

Anche se, per ora, questa prospettiva, nel settore agroalimentare che secondo l'ufficio studi di Federalimentare conta su 63mila aziende e ha un fatturato stimato in 127 miliardi di euro, non si è ancora realizzata. «Si tratta di uno dei pochi settori industriali – rileva Stefania Crogi, leader degli alimentaristi della Cgil – che non ha tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico. Esistono una decina di ristrutturazioni in corso. Ma nessuna ha una profondità e una gravità tale da fare pensare a crisi occupazionali senza ritorno e a procedure straordinarie».
Una stabilità essenziale, nella dinamica congiunturale e strutturale di un settore che dà lavoro, secondo gli ultimi dati dell'Istat, a 428mila addetti, a cui vanno aggiunti gli altri 891mila impegnati nell'agricoltura, il comparto gemello. «Anche se andranno considerati con attenzione – continua Crogi – gli effetti della razionalizzazione del gruppo Parmalat-Lactalis, che nei prossimi mesi non potrà non portare a una riorganizzazione produttiva e commerciale. Non temiamo cali occupazionali. Ma, in ogni caso, potrebbero esserci delle conseguenze sugli assetti del nostro sistema produttivo».

Dunque, al di là della questione specifica del caso del campione nazionale del latte finito in mani ai francesi, la dialettica fra struttura e congiuntura appare complessa e a tratti sfuggente, non semplice da interpretare. Anche se una cosa è certa. La pressione del contesto generale sulle singole imprese dell'agroalimentare italiano è tale da consentire di pronunciare la parola recessione. Una criticità che, per esempio, si riflette sugli investimenti pubblicitari. «Dall'agosto del 2011 – dice Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente dell'Upa – si è assistito a una frenata degli investimenti pubblicitari, che hanno subito una contrazione dell'11,6 per cento». Una questione non irrilevante, se si pensa che, su un mercato pubblicitario che in Italia vale circa 7 miliardi di euro, il primo comparto è proprio l'agroalimentare.

Sassoli de Bianchi non è soltanto presidente delle imprese che investono nella pubblicità. È anche presidente della Valsoia, società quotata che, secondo una analisi di Global Strategy compiuta fra le aziende con un fatturato inferiore a 250 milioni, va annoverata fra le eccellenze dell'agroalimentare italiano. «La crisi dura da tre anni – spiega Sassoli de Bianchi – e ora ha una ricaduta diretta sulla pubblicità. C'è qualcosa di profondo, in quanto sta emergendo: da un lato si assiste a una riorganizzazione del tessuto produttivo, dall'altro si evidenziano i limiti della nostra cultura imprenditoriale. In particolare, sulla internazionalizzazione».

Secondo un classico paradosso italiano, gli ottimi risultati dati dall'export vanno letti secondo una doppia chiave: capacità di vendere i propri prodotti sfruttando la logica delle nicchie, ma anche difficoltà di compiere campagne di acquisizione e di espansione produttiva sui mercati lontani. «Si tratta di un nodo insieme congiunturale e strategico – osserva Pantini – perché l'export è uno strumento essenziale per sostenere la competizione, ma allo stesso tempo sono poche le imprese dell'agroalimentare che riescono a impiantarsi direttamente, con propri siti produttivi, nei mercati di sbocco». Questo succede per una duplice ragione: la dimensione delle aziende italiane non consente di completare l'internazionalizzazione e la cultura organizzativo-manageriale italiana, spesso informale e poco attenta ai processi, è un modello difficile da esportare. Ancora una volta, l'agroalimentare riproduce su scala parziale quanto capita all'intero capitalismo manifatturiero italiano, in grado di intercettare la domanda internazionale con l'export ma non sempre capace di cogliere le potenzialità della globalizzazione sotto il profilo della produzione.

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