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Questo articolo è stato pubblicato il 09 giugno 2014 alle ore 11:55.
L'ultima modifica è del 15 ottobre 2014 alle ore 14:17.

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NEW YORK – Storie di guerra riempiono le prime pagine dei giornali di oggi: che si tratti di guerra civile in Siria, di battaglie di strada in Ucraina, di terrorismo in Nigeria, o della repressione della polizia in Brasile, l'immediatezza raccapricciante di tale violenza è fin troppo evidente. Tuttavia, mentre i commentatori discutono di equilibri geostrategici, di deterrenza, di conflitti etnici, e della situazione della gente comune, vittima innocente, ci si dimentica di analizzare un altro aspetto vitale di qualsiasi conflitto – il suo costo economico.

La violenza porta con sé un prezzo da pagare molto alto. Il o di occuparsi delle sue conseguenze ha raggiunto l'incredibile cifra di 9500 miliardi dollari (11% del PIL mondiale) nel 2012. Questa cifra è più del doppio della dimensione del settore agricolo globale e, comparata ad essa, la spesa totale in aiuti esteri appare insignificante.

Date queste somme colossali, è essenziale che i responsabili politici analizzino correttamente dove e come questo denaro viene speso, e riflettano a modi per ridurre il costo totale. Purtroppo, queste domande sono raramente prese in seria considerazione. Per lo più, ciò è dovuto al fatto che le campagne militari di solito sono motivate da preoccupazioni geostrategiche, non da logiche finanziarie. Anche se gli oppositori della guerra in Iraq potrebbero accusare gli Stati Uniti di avere come obiettivo i campi di petrolio del paese, l’intervento militare è stato antieconomico, a dir poco. La guerra del Vietnam e altri conflitti sono stati anch’essi catastrofi finanziarie.

Dubbi analoghi accompagnano la spesa in armamenti in tempo di pace. Si potrebbe, per esempio, mettere in discussione la logica finanziaria della del governo australiano di spendere 24 miliardi dollari per l'acquisto di Joint Strike Fighters difettosi e contemporaneamente di preparare il paese ai tagli di bilancio più rigidi degli ultimi decenni.

La spesa inutile legata alla violenza non è solo una questione di guerra o di deterrenza. Campagne di ordine pubblico dure e costose, per esempio, pur attirando l’attenzione degli elettori, in genere hanno poco effetto sui tassi di criminalità sottostanti. Che si tratti di una guerra mondiale o di sorveglianza locale, i conflitti implicano sempre grandi aumenti della spesa pubblica; la questione è se valgono il costo che comportano.

Naturalmente, i soldi spesi per contenere la violenza non sono sempre una cosa negativa. L'esercito, la polizia, o nuclei di sicurezza personale sono spesso benvenuti e considerati una presenza necessaria, e, se messi in atto correttamente, nel lungo periodo faranno risparmiare i contribuenti. La domanda pertinente è se l'importo speso in ogni situazione è appropriato.

È chiaro che alcuni paesi hanno trovato un equilibrio giusto, occupandosi della violenza con spese relativamente basse; quindi ci sono modi per ridurre le spese inutili. Un bilancio corretto per un conflitto potenziale o in atto è realizzato più facilmente puntando sulla prevenzione. Sappiamo ciò che è alla base di una società pacifica: una distribuzione equa del reddito, rispetto dei diritti delle minoranze, standard elevati di istruzione, bassi livelli di corruzione, e un ambiente attraente per le imprese.

Inoltre, quando i governi spendere troppo per contenere la violenza, sprecano soldi che potrebbero altrimenti essere investiti in aree più produttive, come le infrastrutture, lo sviluppo delle imprese, o l'istruzione. La maggiore produttività che deriverebbe, per esempio, dalla costruzione di una scuola piuttosto che un carcere, migliorerebbe il benessere dei cittadini, riducendo così la necessità di investire nella prevenzione della violenza. Io chiamo questo meccanismo il "circolo virtuoso di pace".

Si confrontino, per esempio, i a livello mondiale per contenere la violenza ai costi globali della recente crisi finanziaria globale. Mark Adelson, l'ex capo del settore crediti di Standard & Poor, che il totale delle perdite globali della crisi sono ammontate addirittura a 15.000 miliardi dollari nel periodo 2007-2011, che è solo la metà del costo della spesa in materia di violenza durante lo stesso periodo. Se i politici dedicassero la stessa quantità di tempo e denaro a prevenire e contenere i conflitti, i guadagni, in termini di minore violenza e di una crescita economica più rapida, potrebbero essere enormi.

I governi potrebbero cominciare dal riconsiderare la loro spesa in aiuti. A livello globale, già si spende 75 volte di più per il contenimento della violenza che in aiuti allo sviluppo estero. E non è un caso che i paesi con la più alta spesa sulla violenza in percentuale del PIL, sono anche tra i più poveri del mondo - Corea del Nord, Siria, Liberia, Afghanistan e Libia per citarne alcuni. Si potrebbe dirigere questo denaro verso investimenti che riducono o impediscono i conflitti?

Oltre alle ragioni umanitarie ovvie per investire in progetti di pace, soprattutto quando effettuati all’interno dei canali di sviluppo internazionali prestabiliti, tale investimento è anche uno dei modi più efficaci per far sviluppare un'economia e equilibrare un bilancio. Ed è per questo che vale la pena discuterne.

Steve Killelea è Presidente Esecutivo dell'Istituto per l'Economia e la Pace.

Copyright: Project Syndicate, 2014.

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