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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2014 alle ore 11:31.
L'ultima modifica è del 15 ottobre 2014 alle ore 14:03.

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BERKELEY – Dapprima, la si è chiamata crisi finanziaria del 2007. In seguito è diventata la crisi finanziaria del 2008. Poi è stata la recessione del 2008-2009. Infine, a metà del 2009, è stata soprannominata la Grande Recessione. E, alla fine del 2009, con lo spostamento del ciclo economico su una traiettoria al rialzo, il mondo ha tirato un sospiro di sollievo. Non vorremmo, si pensava, passare all’etichetta successiva, che inevitabilmente conterrebbe la temuta parola che comincia per D.

Ma il senso di sollievo è stato prematuro. Contrariamente alle affermazioni dei politici e dei loro consulenti esperti, che l’ estate del recupero era arrivata, gli Stati Uniti non hanno sperimentato un modello di ripresa rapida (a forma di V), come avvenuto dopo le recessioni alla fine degli anni settanta e all’inizio degli ottanta. E l’economia statunitense è rimasta ben al di sotto del suo precedente trend di crescita.

Infatti, dal 2005 al 2007, il degli Stati Uniti è cresciuto poco più del 3% annuo. Durante la recessione del 2009, la cifra era inferiore all’11% - e da allora è sceso di un ulteriore 5%.

La situazione è ancora peggiore in Europa. Invece di una debole ripresa, a partire dal 2010, la zona euro ha subito una seconda ondata di contrazione. All’apice della crisi, il è pari all’ 8% in meno rispetto al trend 1995-2007; oggi, è inferiore del 15%.

Le perdite cumulative della produzione relativamente ai trend del periodo 1995-2007 costituiscono oggi il 78% del PIL annuo per gli Stati Uniti, e il 60% per la zona euro. Si tratta di una quantità straordinariamente grande di ricchezza persa - un risultato di gran lunga peggiore di quanto ci si aspettava. Nel 2007, nessuno aveva previsto il calo dei tassi di crescita e di produzione potenziale che le agenzie di statistica e di azione politica oggi assumono nelle loro stime.

Dal 2011, era chiaro - almeno per me - che la Grande Recessione non era più un appellativo adeguato. Era il momento di cominciare a chiamare questo episodio la Minore Depressione.

Ma la storia non finisce qui. Oggi, l’economia del Nord Atlantico si trova di fronte ad altri due shock recessivi.

Il primo, come Lorcan Roche Kelly dell’ Agenda Research , è stato discusso dal presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, in modo estemporaneo durante un . Draghi ha iniziato riconoscendo che, in Europa, l’inflazione è diminuita all’incirca dal 2,5% di metà del 2012 allo 0,4% di oggi. Ha poi sostenuto che non possiamo più supporre che gli elementi trainanti di questa tendenza - come il calo dei prezzi dei generi alimentari e dell’energia, l’elevata disoccupazione e la crisi in Ucraina - siano di natura contingente.

In realtà, l’inflazione è in calo da così tanto tempo che ora minaccia la stabilità dei prezzi - e le aspettative di inflazione continuano a cadere. Il tasso swap a cinque anni - un indicatore delle aspettative di inflazione a medio termine -, a partire dalla metà del 2012, si è ridotto di 15 punti base, a meno del 2%. Inoltre, come ha osservato Draghi, i tassi reali a breve e medio termine sono aumentati; non sono cresciuti i tassi a lungo termine, a causa di un calo dei tassi nominali a lungo termine che si estende ben al di là della zona euro.

La successiva dichiarazione di Draghi che il Consiglio Direttivo della BCE userà tutti gli strumenti non convenzionali disponibili per salvaguardare la stabilità dei prezzi e ancorare le aspettative inflazionistiche nel periodo medio-lungo è eloquente. L’ipotesi che la zona euro si sia avviata verso un percorso di ripresa è crollata; l’unico modo realistico per leggere i mercati finanziari è quello di anticipare una tripla recessione.

Nel frattempo, negli Stati Uniti, la Federal Reserve sotto Janet Yellen non si chiede più se sia il caso di fermare l’acquisto di titoli a lungo termine ed aumentare i tassi di interesse fino a quando vi sia una ripresa significativa dell’occupazione. Invece, nonostante l’assenza di un significativo aumento dell’occupazione o un sostanziale aumento dell’inflazione, la Fed sta già tagliando i suoi acquisti di titoli e valutando quando, non se, alzare i tassi di interesse.

Un anno e mezzo fa, chi si aspettava un ritorno entro il 2017 al percorso della produzione potenziale - qualunque fosse - ha stimato che la Grande Recessione finirebbe per costare all’economia del Nord Atlantico circa l’80% del PIL di un anno, o di 13.000 miliardi dollari, in produzione persa. Se un tale recupero a cinque anni è iniziato oggi - uno scenario già molto ottimista - ciò significherebbe perdite di circa 20.000 miliardi dollari. Se, come sembra più probabile, l’economia si comporta, nel corso dei prossimi cinque anni, come ha fatto per gli ultimi due, e poi ha bisogno altri cinque anni per recuperare, andrebbe perso un enorme ricchezza del valore 35.000 miliardi dollari.

Quando ammetteremo che è il momento di chiamare ciò che sta accadendo con il suo vero nome?

J. Bradford DeLong un ex vice assistente segretario del Tesoro americano, è Professore di Economia presso l’Università della California a Berkeley e ricercatore associato presso il National Bureau of Economic Research.
Copyright: Project Syndicate, 2014.

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