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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2011 alle ore 15:40.

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Alla taglia media va stretta la Borsa. Su oltre 4mila imprese di medie dimensioni, censite dall'ufficio studi di Mediobanca, meno di venti sono quotate a Piazza Affari.

Parliamo di società con fatturato compreso tra i 15 e i 330 milioni e un organico di 50-499 dipendenti che sono la punta di diamante dell'industria italiana: solo un quarto ha i conti in rosso, quelle che guadagnano in proporzione più delle grandi, hanno un tasso di fallimento limitato a 2 su mille, riescono a sfondare all'estero e si autofinanziano gli investimenti. E non basta: oltre la metà (il 53,7%) è investment grade, con un rating superiore a BBB-, mentre solo l'8% ha voti inferiori a B+.

In altre parole le medie imprese avrebbero le caratteristiche giuste per andare in Borsa e per piacere alla Borsa, ma, almeno in Italia, non succede nè l'uno nè l'altro. Ogni anno dal bacino delle 4mila medie imprese ne escono 70-80 che diventano medio-grandi (ricavi fino a 3 miliardi, con più di 500 dipendenti). Ma la Borsa non le intercetta e oltre la metà finisce per essere catturata da società di maggiori dimensioni: il 37,9% di quelle che diventano "grandi" viene assorbita da gruppi italiani, il 17,7% da gruppi esteri. Se per crescere tentassero la strada del listino, Piazza Affari potrebbe avere una quarantina di matricole in più ogni anno e le debuttanti avrebbero maggiori chance di restare indipendenti: oggi solo il 36,9% delle emergenti ce la fa, mentre il 7,5% finisce a portare i libri in Tribunale.

Occasioni mancate, per il listino e per le aziende, che restano a crogiolarsi nel loro comodo nido o non riescono a spiccare il volo come dovrebbero. Ma uno dei principali motivi per cui in Borsa non ci vanno è proprio perchè non vogliono crescere. Preferiscono presidiare la loro nicchia, con l'abilità "artigianale" che consente di spuntare prezzi di vendita mediamente superiori del 6% a quelli dei concorrenti meno qualificati. Caratteristiche che sono apprezzate oltreconfine dove raccolgono i frutti del loro approccio al business più che nell'orticello di casa. Basti pensare che dal '99 al 2009 l'export delle medie imprese è aumentato del 58,9% – a un tasso annuo del 4,7% – e cioè quasi il doppio rispetto alla crescita del fatturato domestico che, nello stesso periodo, è stata del 30,2%, il 2,7% all'anno. Non c'è gara con le big dell'industria tricolore che all'estero sono avanzate al passo del 2,9% all'anno, aumentando l'export del 32,6 per cento.

Ma più che la sindrome di Peter Pan, la risposta alla domanda "perchè non si quotano?" è anche la più banale: perchè non ne hanno bisogno. Con il proprio patrimonio sono in grado di far fronte interamente agli investimenti in beni durevoli e anche a quelli finanziari (pochi in proporzione). Fatto cento il valore del totale dell'attivo "tangibile" (marchi, avviamenti e altre attività immateriali escluse), i mezzi propri delle medie imprese italiane sono pari al 46,8%, più degli attivi immobilizzati che sono il 44,1%. Ben diversa la struttura delle multinazionali tricolore, dove i mezzi propri valgono meno del 29% dell'attivo tangibile e le immobilizzazioni contano invece per quasi il 55%. È vero che rispetto alle grandi, le medie sono più esposte nei confronti delle banche: i debiti a breve rappresentano il 32,5% del totale dell'attivo tangibile contro il 26% delle altre. Ma la struttura finanziaria è coerente con il fatto che l'attivo è rappresentato soprattutto dal capitale circolante (crediti verso clienti e magazzino) che vale il 55,9% del totale e oltretutto è quasi il doppio, per ammontare, del debito a breve termine: non c'è pericolo che non rimborsino e infatti le medie sono premiate da un costo di finanziamento nettamente inferiore a quello delle altre categorie. Ai dati del 2008, il costo del debito che era del 10,3% per i maggiori gruppi italiani e del 7,1% per le aziende medio-grandi, era "appena" del 6,5% per le medie. In definitiva, le mid-size non hanno bisogno di ricorrere al mercato per raccogliere capitali, dal momento che i mezzi propri coprono abbondantemente gli immobilizzi in macchinari. E non hanno neppure bisogno di ristrutturarsi finanziariamente, dato che basta il canale bancario a finanziare l'attivo corrente. Le poche che arrivano al traguardo del listino, in Borsa però non brillano. Dall'inizio del 2005 a fine aprile scorso, la ventina di quotate ha registrato performance negative di quasi l'11% nella media annua, più del doppio rispetto al -5% dell'indice generale Mediobanca di Borsa. In Germania la situazione è opposta: le medie imprese tedesche nello stesso periodo hanno reso il 9% all'anno sopravanzando l'indice di Francoforte di quasi 2 punti e mezzo.

Bassi flottanti rischiano di essere trascurati, e questa è una spiegazione. Lo scarso rendimento delle medie imprese di Piazza Affari trova invece una giustificazione solo parziale nelle modalità di approccio al mercato. Di quelle che hanno promosso un'Ipo negli ultimi anni, solo una ha offerto agli investitori esclusivamente azioni di nuova emissione. In tutti gli altri casi a vendere era anche la proprietà: se i vecchi azionisti monetizzano, i potenziali nuovi azionisti ne ricavano l'impressione che da valorizzare sia rimasto poco. È pur vero che in 9 offerte su 16 l'ammontare dei titoli di nuova emissione – denaro fresco per le casse della società – è stato superiore ai quantitativi offerti dai vecchi soci. Ma il vero motivo è che la punta dell'iceberg che affiora sul mercato è talmente minuscola da non essere rappresentativa: basti pensare che delle 18 società quotate che rientravano nel censimento del 2008, era in rosso il 40% rispetto al 25% dell'universo delle medie imprese e che, a livello aggregato, evidenziavano un'incidenza del margine operativo netto sul fatturato del 2,1%, meno della metà rispetto al 4,9% dell'intero comparto.

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