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Questo articolo è stato pubblicato il 27 ottobre 2014 alle ore 12:27.
L'ultima modifica è del 27 ottobre 2014 alle ore 08:25.

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La Bce e l'Eba possono essere soddisfatte per la conclusione di questa importante verifica sulla salute delle banche europee, ma dal punto di vista dei singoli Paesi, e dell'Italia in particolare, emergono non pochi punti interrogativi. Per le autorità europee, il risultato è indubbiamente ottimale: l'esercizio è stato severo e soprattutto è stato preso sul serio dalle banche, che fra il 2013 e la prima metà del 2014 hanno rafforzato il capitale per oltre 200 miliardi di euro. Il deficit complessivo (25 miliardi) si riduce a meno di 10 se si tiene conto delle ultime misure. E pazienza, dall'alto della supervisione unica, se un quinto di questo importo riguarda una sola banca italiana, il Monte dei Paschi. Cinicamente, sempre in quest'ottica, un nome illustre ci voleva per rispettare il principio del “colpiscine uno per educarne cento”.

Dunque, il meccanismo di supervisione unica, pilastro fondamentale dell'Unione bancaria europea, può cominciare nel migliore dei modi, vigilando su un complesso di banche che hanno superato il test di sana e robusta costituzione.

In questa ottica, anche il regolatore italiano può dirsi soddisfatto: è vero che oltre a Monte dei Paschi vi è anche Carige con un deficit non indifferente. Ma se si guarda alla progressione dei dati, si nota che al 31 dicembre 2013, su 15 banche italiane, ben 12 avevano carenze per quasi 10 miliardi (ed erano ancora 4 per 3,3 miliardi alla fine di giugno). Dunque il pressing degli ultimi mesi della Banca d'Italia è stato fondamentale per evitare una bocciatura clamorosa. Ma da qui ad affermare che il film dello stress test, preannunciato come thriller, si è concluso con un happy end degno della commedia brillante, ce ne corre. Almeno tre domande sorgono spontanee.
La prima è: come mai il sistema bancario italiano, che al momento in cui è scoppiata la crisi appariva come il più robusto d'Europa presenta vari elementi di criticità?
La risposta è semplice: perché in nessun Paese come l'Italia la crisi ha colpito così duramente: undici punti di Pil già persi hanno determinato un aumento dei rischi di credito (la voce principale dell'attivo delle nostre banche) che non ha precedenti nella storia. L'apparente debolezza delle banche italiane è solo lo specchio della debolezza dell'economia o, se si preferisce, delle misure di rilancio che sono state via via promesse dal 2007 ad oggi. Se si considera che lo stress test prevedeva un'ulteriore caduta del prodotto lordo, il risultato va considerato positivamente: davvero da questo punto di vista il bicchiere è mezzo pieno. Ma è evidente che la gravità della crisi italiana ha disperso gran parte del vantaggio relativo di sette anni fa e che da oggi le banche italiane (soprattutto le medie che sono comunque a livelli di guardia) saranno considerate con attenzione dal mercato, il che si tradurrà in maggiori costi di raccolta, soprattutto per le fonti diverse dai depositi.

La seconda domanda riguarda le sorprese di questa verifica, che come in ogni test, non vengono dai presenti, ma dagli assenti. Come si spiega il risultato positivo per tutte le grandi banche, comprese quelle francesi, tedesche e britanniche che hanno un bilancio fortemente esposto verso attività speculative, assai opache e non meno rischiose? Persino Deutsche Bank, la banca più chiacchierata, supera a gonfie vele la prova, anche senza tener conto dell'ultimo aumento di capitale di oltre 8 miliardi. Inoltre non ci sono banche spagnole, che pure stanno attraversando una crisi immobiliare particolarmente grave.

La risposta va cercata nei mille misteri dei criteri di Basilea, che determinano il requisito di capitale sulla base di sofisticatissimi modelli interni (convalidati dai supervisori) che alla fine privilegiano oggettivamente le attività in titoli, per quanto speculative, rispetto alla tradizionale attività di prestito. Perché alla fine consentono ad una grande banca come Deutsche, il cui patrimonio è solo 2,4 per cento rispetto al totale attivo di non accantonare un centesimo di capitale su oltre un trilione di attività di bilancio che pure fruttano interessi. Intesa SanPaolo, che ha un rapporto patrimonio/attivo di 6,24 deve accantonare patrimonio su oltre la metà del totale attivo perché sul portafoglio prestiti la magia dei modelli interni non ha effetto, soprattutto in un Paese con tante piccole imprese che non possono fregiarsi delle triple A fornite dalle infallibili agenzie di rating. Forse le voci sempre più critiche sulla logica intrinseca di Basilea, che vengono anche da una parte qualificata della scienza economica devono essere considerate come qualcosa di più di una brillante provocazione intellettuale.

La terza domanda riguarda il futuro del sistema bancario europeo: è un sistema davvero robusto che sarà capace di riaprire il rubinetto del credito necessario per alimentare la ripresa? A parte i dubbi esistenziali sulla validità dei criteri di Basilea, non c'è dubbio che quello di ieri è stato un test su un solo aspetto del problema. Non bisogna dimenticare che poche settimane fa l'autorità europea di supervisione sul rischio sistemico (cioè quello più generale di tutti) ha giudicato il sistema bancario europeo “obeso” cioè troppo grande rispetto all'economia reale (ma l'Italia è proprio uno dei Paesi in cui questo difetto è meno accentuato) e ha legato questo difetto proprio alle eccessive dimensioni di molte banche e alla loro propensione per attività di carattere speculativo. E, guarda caso, il rapporto è firmato da un comitato scientifico presieduto da Martin Hellwig, un eminente professore tedesco oggi all'avanguardia nel denunciare i limiti di Basilea.

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