Le difficoltà potrebbero cominciare oggi stesso. Se l’elezione di Donald Trump dovesse creare turbolenze durature sui mercati, la Fed e le banche centrali di tutto il mondo potrebbero essere costrette a rivedere le loro scelte di politiche monetaria. Con effetti imprevedibili.
Gli investitori hanno tutti i motivi per nutrire incertezze sul programma economico di un presidente che assumerà poteri solo a gennaio, tra due lunghi – per i tempi della finanza – mesi. È evidente che Trump non riuscirà a realizzare tutto quanto ha promesso. La sua campagna elettorale è stata molto opportunistica, allo scopo di catturare consensi anche incompatibili tra loro: ha promesso tagli alle tasse per blandire i repubblicani classici, forme di protezionismo e la chiusura delle frontiere per illudere lavoratori a rischio e disoccupati di lungo periodo, le critiche alla stessa Fed, accusata di tenere il costo del credito basso per ragioni politiche («Quando alzeranno i tassi, vedrete accadere cose molto brutte, perché non stanno facendo il loro dovere», ha detto) per frenare la piccola ma insidiosa emorragia di voti verso il libertarian Gary Johnson.
La sua reale politica sarà in larga parte diversa. Il sistema americano di checks and balances ha tenuto a bada gli estremismi di molti presidenti. Il caso di Ronald Reagan, molto diverso da Trump ma a modo suo altrettanto radicale, può essere interessante per un confronto: la sua politica concreta – così come quella di Margaret Thatcher – fu molto poco liberista (la Camera dei rappresentanti, oltretutto, era nelle mani dei democratici). Lui però è ancora considerato come un eroe del liberismo (o un avversario dai suoi critici): la sua fama è affidata a poche iniziative, molto rumorose, con le quali ha voluto lasciare il segno.
In che modo Trump vorrà lasciare il “suo” segno? Tagliando le tasse? Potrebbe essere il sentiero di minore resistenza, sul piano politico, quello più tradizionale per un repubblicano ma occorrerà tener conto, oggi più di ieri, della sostenibilità dei conti pubblici. La banca centrale e la sua politica dei tassi – destinati a crescere, sia pure lentamente – sarà allora in prima linea, e diventerà il capro espiatorio delle richieste contraddittorie della politica (tagliare i tassi per il budget federale, alzarli per pensionati e risparmiatori, per esempio): Trump non userà certo con la Fed con la desiderabile correttezza istituzionale (peraltro sempre più rara in un mondo in cui Theresa May attacca la Bank of England o Wolfgang Schäuble critica la Bce). Vorrà forse lanciare un’iniziativa protezionistica? In questo caso i danni sarebbero più intensi – e i vantaggi elusivi – per tutto il mondo.
Il traino dell’economia statunitense, già indebolito, verrebbe a mancare dappertutto, mentre gli stessi Stati Uniti sarebbero condannati a un lento declino. Vorrà piegare – se mai fosse possibile – l’immigrazione clandestina? Anche in questo caso i danni sarebbero visibili: i lavoratori con meno competenze, a maggior ragione in un sistema flessibile come quello americano, liberano i colleghi dalle mansioni più ripetitive a vantaggio di quelle più produttive e più premianti anche sulla retribuzione.
In ciascuna di queste ipotesi le banche centrali del mondo subiranno pressioni molto forti perché sostengano una crescita che non c’è. Peccato che non sia possibile. La politica monetaria può gestire la domanda potenziale mancante, ma difficilmente, quasi solo, si può dire, per un colpo di fortuna – costruire davvero domanda nuova, se non in modo transitorio. L’andamento delle politiche ultraespansive degli ultimi otto anni, del resto, hanno insegnato molto sui limiti della politica monetaria. Limiti che variano da Paese a Paese, e in dipendenza delle diverse fasi del ciclo; ma che sono in ogni caso stringenti.
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