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Il robot-gestore dei risparmi costa poco ma in Italia lo usano in pochi

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Il robot-gestore dei risparmi costa poco ma in Italia lo usano in pochi

Il robo advisor. Cioè la consulenza finanziaria automatizzata. Negli Stati Uniti e, soprattutto, in Cina è un fenomeno che comincia ad essere rilevante. In Italia, invece, è ancora appannaggio di pochi. Secondo gli esperti però, facendo leva soprattutto sui minori costi, anche nel mercato domestico potranno esserci le opportunità per crescere.

L’ampiezza del fenomeno
Quali, allora, le reali dimensioni dell’algoritmo consulente? PwC stima che in Italia gli Asset Under Management (AuM) di questi robot valgono lo 0,06% del risparmio gestito. Il dato, a ben vedere, è inferiore alla media europea (0,14%). E, tuttavia, da un lato la differenza con gli altri Stati del Vecchio Continente non è così elevata; e, dall’altro, ci sono importanti Paesi dove l’irrilevanza della gestione automatizzata è ancora maggiore.

Così ad esempio, secondo quanto calcolato dal Sole24ore, in Francia si arriva allo 0,01% e in Spagna allo 0,04%. Va detto che simili numeri devono considerarsi “cum grano salis”. In Germania gli AuM dei robo advisor valgono lo 0,25% delle ricchezze gestite in quello Stato. Cioè una percentuale che è superiore a quella della Gran Bretagna (0,12%). In valore assoluto, però, l’ammontare è molto più basso: ci si assesta infatti, secondo le stime di Statista per fine 2019, a 7,5 miliardi contro i 13,1 miliardi di euro “Made in Britain”.

Perchè questo paradosso contabile? Semplice: la City di Londra è uno dei principali centri finanziari al mondo. Gli asset lì gestiti, a detta di The Investment Association, valgono oltre 10.000 miliardi di euro contro i circa 3.000 miliardi di Berlino. Quindi, nonostante i robo advisors britannici “amministrino” maggiori patrimoni, il mare in cui navigano è molto più ampio. Ciò detto, in termini di masse “automatizzate”, l’Inghilterra e la Germania staccano di gran lunga gli altri Paesi del Vecchio Continente.

Il confronto con Usa e Cina
Già, il Vecchio Continente. Questo, come rilevanza del fenomeno, è molto indietro non solo agli Stati Uniti (dove il robo advisor pesa circa il 2%) ma soprattutto alla Cina. Nel Paese del Dragone la consulenza, e gestione, di denari da parte degli algoritmi vale, secondo PwC, il 4,26% degli AuM totali. Il numero non stupisce. Lo sviluppo economico-finanziario del gigante asiatico è recente. La sua crescita, unitamente ai comportamenti dei risparmiatori, è andata a braccetto con la digitalizzazione di consumi e costumi. «In Cina - spiega Antonio Fratta Pasini direttore marketing di CheBanca! ed esperto FinTech - ci sono applicazioni molto diffuse, quali WeChat, dove i consumatori sono abituati a svolgere via Internet diverse attività, comprese le transazioni monetarie. Il wealth management digitale, quindi, ad oggi vanta un habitat molto più favorevole che in Occidente».

Le abitudini in Italia
Completamente diversa la situazione in Italia. Lo Stivale, sul fronte del risparmio, è caratterizzato da un’impostazione bancocentrica. La rete di filiali degli istituti di credito costituisce un’ “ossatura” che agevola l’interazione tra risparmiatore e consulente fisico. Certo: le banche italiane, un po’ per tagliare i costi e un po’ per tenere il passo all’evoluzione tecnologica, hanno ridotto le “branches”. Inoltre hanno spinto anch’esse sulla digitalizzazione. Ciononostante la figura del consulente umano è rimasta al centro. Tanto che, in Italia ma non solo, ha preso piede il cosiddetto robo advisor ibrido. Cioè il robot al servizio dell’esperto persona fisica. «L’automazione - spiega Marco Giorgino Direttore scientifico dell’Osservatorio Fintech & Digital Finance del PoliMi - non è in grado di gestire la componente emotiva del risparmiatore, in particolare in momenti di volatilità dei mercati come gli attuali. Di conseguenza non stupisce che il cliente retail chieda l’interazione con un soggetto umano».

Prospettive
Fin qui la situazione attuale: quali, però, le prospettive future? Diversi esperti considerano che anche in Italia questa tecnologia, nel medio lungo periodo, potrà assumere una sua rilevanza. Un processo che, secondo molti, è avviato. «Il risparmiatore - afferma Mauro Panebianco PwC Partner e capo Asset & WM Advisory Emea -, nell’attuale contesto di maggiore pervasività della tecnologia, aumenta il suo livello di emancipazione ed autonomia» rispetto alle controparti finanziarie tradizionali. Una condizione che «può agevolare i robo advisors».

Anche perchè non vanno dimenticati i costi. PwC, nel nostro mercato, stima che quelli della robo consulenza si assestano tra 30 e 120 punti base, mentre l’advisory tradizionale è tra 150 e 200 basis points. La differenza, insomma, esiste. Eppure, finora, non ha costituito un elemento dirimente. Perchè? I motivi sono diversi. Tra i vari, però, deve sottolinearsi la scarsa cultura finanziaria degli italiani i quali, a differenza ad esempio degli americani, non analizzano gli oneri legati alle gestioni. Una scossa, in tal senso, potrà darla la Mifid2. «La direttiva, che impone maggiore trasparenza sulla struttura commissionale - dice Panebianco - può dare impulso alle nuove realtà, nella gestione e nella consulenza dei portafogli finanziari, quali per l’appunto i robo advisor».

Oltre le commissioni
Ma non è solo questione di cultura o di costi. È rilevante anche la performance dei sistemi automatizzati. Va detto che, secondo gli esperti, effettuare confronti con i sistemi tradizionali non è semplice. In Italia, ad esempio, il robo advisor ibrido sempre più spesso è caratterizzato da una delega in gestione del cliente. Il che rende la comparazione complessa. Ciò detto, negli Usa, PwC (in collaborazione con il PoliMi e Deus Technology) ha realizzato un’articolata analisi delle performance simulate di portafogli, tra il 2012 e il 2017, dei 4 robo advisors più importanti: Betterment, Wealthfront, CharlesSchwab e Future Advisor. È saltato fuori che i gestori automatici in generale battono i benchmark di riferimento. Il 75% delle soluzioni dei robo advisors hanno infatti sovraperformato gli indici di confronto. Insomma: le premesse per la crescita di queste tecnologie paiono esserci, anche in Italia. Probabilmente, da un lato, nella forma integrata con l’advisory umano; e dall’altro, visto l’alto costo dei player indipendenti per acquisire nuovi clienti, con partnership tra FinTech e banche. Al netto, ovviamente, della discesa in campo dell’Amazon di turno.

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