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Questo articolo è stato pubblicato il 06 febbraio 2013 alle ore 06:43.

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Per arrivare al trasferimento tecnologico all'industria, poi, continua Cingolani, «ci sono tre scenari di processo. Il primo parte da un brevetto molto forte. Quando si ha in mano quello, si possono avviare start-up; e all'Iit abbiamo cominciato ad avviarle. Il nostro dovere, come istituto pubblico, è appunto di aiutare i giovani a produrre proprietà intellettuali e favorire start-up per lo sfruttamento commerciale. Ai giovani, insomma, dobbiamo consentire di fare gli imprenditori ma anche gli scienziati. Se uno ha una bella idea, fa il piano per produrla e all'Iit gli diamo la possibilità di utilizzare, con accordi ad hoc, i nostri laboratori. Entro tre anni, però, deve trovare un investitore. Perché se a quell'idea non crede il mercato, tantomeno può crederci l'Iit. Se, però, il progetto non va bene, quella persona deve anche poter rientrare e continuare a fare lo scienziato».

Il secondo scenario, dice Cingolani, «parte sempre dal brevetto ed è il caso ideale in cui un'azienda viene da te e ti chiede di vendergli una licenza. Nessun istituto al mondo, però, riesce a vivere di questo. Il terzo scenario, più minimal ma più frequente e in grado di costruire un rapporto con le aziende, è quello che nasce soprattutto dall'eco che i media danno alle nostre ricerche. Le imprese vengono da te e ti chiedono, ad esempio: io produco carta e ho un determinato problema. Tu, con le tue tecnologie puoi fare qualcosa?».

L'esempio non è casuale, perché recentemente una grande cartiera italiana, che si trova a dover gestire carta riciclata, ha chiesto all'Iit una soluzione per gli agenti nocivi che quel tipo di prodotto rilascia. Nel cercare una soluzione, l'istituto genovese ha trovato un sistema che, oltre a fare da barriera tra la carta e gli agenti nocivi, la rende idrorepellente e molto più resistente allo strappo. Insomma, una soluzione che potrebbe anche portare ad applicazioni nel campo dell'abbigliamento o degli imballaggi speciali.

«Ovviamente – aggiunge Cingolani – spesso è l'Iit a cercare le aziende per spiegare loro cosa possiamo offrire. Insomma, dobbiamo trovare un punto d'incontro: noi magari abbiamo fatto una ricerca e dobbiamo capire cosa vuole un'azienda e l'impresa deve capire che non può avere subito quel che vuole. Di solito mettiamo a punto una road map, per il progetto, che dura dai 6 mesi a un anno. Questa fase, ovviamente, ha dei costi per l'azienda, pari alla copertura delle spese vive che sosteniamo. Se questa fase ha successo, partono quelle successive o magari un laboratorio congiunto; come è successo con i progetti che abbiamo con Nikon e Leica». E da queste collaborazioni sono nati anche novità come il tessuto cachemire, per la Zegna, trattato in modo da respingere le macchie, senza che ne sia intaccata la morbidezza; la suola per la Vibram, in grado di recuperare l'energia creata camminando e trasformarla in un sistema di trasmissione per il cellulare o di riscaldamento per la scarpa; la pellicola fotovoltaica, sviluppata con la Omet di Lecco, che può essere stampata su rotativa, come un foglio di carta e applicata, per esempio, su tendopoli o coperture d'impalcature, per fornire energia.

«Nel 2012 – conclude Cingolani – abbiamo speso, per i brevetti, circa 450mila euro. Però abbiamo introitato un ritorno, in progetti, pari a 4,5 milioni. I fondi che ci arrivano dallo Stato italiano sono pari a circa 100 milioni. Mentre il fund raising, fatto su progetti Ue già vinti, ammonta a 60 milioni».

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