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Questo articolo è stato pubblicato il 02 aprile 2013 alle ore 08:03.
L'ultima modifica è del 02 aprile 2013 alle ore 08:08.

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Un paesaggio industriale e tecnologico plasmato e rimodellato. Anche nell'automotive. Torino non è più, davvero, Torino.
C'è la retorica pubblica sulla diversificazione economica e sul mutamento culturale di una città meno "meccanica" di un tempo e sempre più diversa nell'atteggiamento dei torinesi verso la vita.

Nonostante una crisi durissima gli stranieri frequentano le pasticcerie con cioccolata e brioche degne delle corti ottocentesche e visitano musei e gallerie, in particolare di arte moderna, dagli allestimenti mai banali. E la malinconia nell'aria da economia in recessione è attutita dall'immagine delle ragazze in minigonna sugli skateboard a prendere il primo tepore primaverile, bellissimo il contrasto dei loro sorrisi adolescenziali con le severe geometrie di Piazza San Carlo.
La vera ragione di questa metamorfosi identitaria è rappresentata dal suo carattere di continuità: la sostanza strutturale di un mutamento che, negli ultimi dieci anni, ha investito anche qui l'industria dell'auto, la sua base manifatturiera e la sua capacità di creare innovazione, in quel mix di tecnologie e di sapere informale che caratterizza tutti i "car guys", i ragazzi dell'auto, da Torino a Detroit, da Wolfsburg a Toyota City.
Sergio Marchionne, fra il 2004 e il 2008, salva la Fiat da una condizione prefallimentare e, nel 2009, concepisce l'operazione Chrysler. Il manager italo-canadese trova al suo arrivo un gruppo esangue, indebolito nel core business dai cambiamenti esogeni della geopolitica dell'auto internazionale e dalla strategia endogena di diversificazione attuata dal gruppo torinese degli anni Novanta, eredità di medio periodo della prevalenza dell'approccio da conglomerata del dottor Romiti e della sconfitta della tendenza "auto e solo auto" dell'ingegner Ghidella.

Questa condizione generale, allora, si riflette anche nelle fabbriche di Torino, con Mirafiori sempre più vuota. Fuori, però, le cose da tempo stanno cambiando. Il rapporto della subfornitura torinese con i gruppi tedeschi e francesi, fin dagli anni Novanta, si è intensificato. Nella committenza. E, dunque, nelle osmosi tecnologiche a mille chilometri di distanza fra grande casa produttrice e piccole e medie imprese locali. Il risultato di questo stravolgimento è un cluster, in parte informale e in parte formale, in cui - nella inevitabile amalgama di cose Fiat e non Fiat - si delineano anche molti elementi autonomi dal gruppo torinese.
In questo reticolo di piccole e medie imprese si trovano catalizzatori semipubblici come il Mesap, il polo di innovazione della meccatronica che si trasfonde nell'automotive. Ci sono dei robusti nodi "stranieri" come General Motors Powertrain Europe, il centro di ricerca sui motori diesel, l'unico al mondo del gruppo americano, rimasto a Torino dopo lo scioglimento nel 2005 dell'alleanza con la Fiat. E compaiono dei gangli ibridi, come l'italiana Italdesign di Giorgetto Giugiaro, che oggi fa parte del gruppo Volkswagen.

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