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Dossier Il Salento resta fuori dall’«Heritage»

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    Dossier | N. 7 articoliIndustria delle vacanze

    Il Salento resta fuori dall’«Heritage»

    La Basilica di Santa Croce e l'adiacente Palazzo dei Celestini (Olycom)
    La Basilica di Santa Croce e l'adiacente Palazzo dei Celestini (Olycom)

    Un fantasma si aggira per il Salento: la candidatura del barocco leccese e del paesaggio salentino nella lista dell’Unesco. La prima e unica iscrizione alla tentative list dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la cultura, l’educazione e la scienza risale al 2006, quando a Lecce regnava Adriana Poli Bortone, più volte sindaco e ministro della Repubblica. Erano i tempi del rinascimento di questa estrema propaggine d’Italia, riscoperta dagli italiani per il mare cristallino e la “notte della Taranta” di Melpignano, un happening musicale lungo una settimana che attira 200mila persone. Dal 2006 è successo poco o nulla.

    Premessa: l’ingresso tra i luoghi tutelati dall’Unesco non è soltanto una medaglia. L’Italia è al primo posto nel mondo per numero di siti. Un primato a rischio. A Parigi, dove ha sede la società delle Nazioni Unite, si sono stancati dei ritardi nostrani e della mancata applicazione dei piani di gestione, l’articolazione urbanistica, sociale e della rigenerazione economica. A Parigi (vedi a fianco l’intervista del capo missione Tatiana Kirova) pensano che il titolo Unesco debba innescare un ripensamento dei siti in questione, con relative azioni da mettere in campo oppure si limiterà ad aggiungere un po’ di turismo (si calcola in media nell’ordine del 20%).

    L’ambizione dell’Unesco è ben più alta di un segno percentuale “più” nell’elenco delle presenze e degli arrivi. Si sa, per esempio, che i giapponesi prediligono visitare i luoghi inseriti nella world heritage list. A Parigi non smettono di citare le pratiche migliori in giro per il mondo (dall’Iran alla Francia) che mai, tranne forse il caso della Valcamonica, annoverano l’Italia.

    Lecce è un caso da manuale al contrario. Il primo colpo dopo il 2006 è stato battuto nel 2014, quando il capoluogo salentino si è candidato a capitale europea della cultura 2019. Sappiamo com’è andata. Ha vinto di misura Matera, con una spaccatura senza precedenti nella commissione giudicatrice, composta da sette giurati stranieri nominati da Bruxelles e sei italiani prescelti dall’allora ministro della Cultura, Massimo Bray: i sette giurati stranieri votarono compatti per la città dei Sassi (sito Unesco), i sei italiani si spaccarono. Tre voti a Ravenna, tre a Siena. Cagliari, Perugia e Lecce, le altre finaliste, dovettero accontentarsi del titolo di capitale italiana della Cultura 2015, istituito in tutta fretta dal ministro Dario Franceschini. Un contentino per le perdenti con relativo cadeau di 1,5 milioni di euro da investire in attività culturali.

    Da anni a Lecce sono nati diversi movimenti di cittadini che chiedono al sindaco Paolo Perrone, fittiano e pupillo della Poli Bortone, e all’ex presidente della Provincia, Antonio Maria Gabellone, di tornare alla carica con l’Unesco e redigere un dossier propedeutico che finalmente desse ai ricami del barocco leccese e al paesaggio salentino il riconoscimento che gli spetta. L’Unesco, dopo l’iscrizione alla tentative list, aveva fornito solo un suggerimento: alla luce della promozione del barocco del Val di Noto (vedi Il Sole 24 Ore del 10 agosto 2016), fareste meglio a presentare una candidatura che coinvolga l’insieme del Salento e l’unicità del paesaggio degli ulivi centenari, che dalle parti di Castrignano del Capo esprimono una spiritualità forse più intesa del Getsemani di Gerusalemme. Il consiglio rafforzava allo stesso tempo una delle politiche dell’Unesco: spingere le aggregazioni tra Comuni. Nulla accade, e Otranto e Gallipoli provarono ad avanzare la propria candidatura in solitario. Tentativo abortito, anche perché nel frattempo - siamo all’agosto del 2015 - il sindaco di Gallipoli si dimise e si proclamarono nuove elezioni.

    Wojtek Pankiewicz, per una vita ordinario di Diritto pubblico all’Università del Salento e presidente dell’associazione “Valori e rinnovamento”, ha protocollato tutte le lettere inviate (con relative risposte) a Perrone e Gabellone. Dice: «Il sindaco dichiarò alla stampa che entro il 31 dicembre 2015 il dossier sarebbe stato ultimato. E la domanda formalizzata subito dopo». Non è accaduto. E Alessandro Delli Noci, l’assessore all’Innovazione tecnologica al quale Perrone ha affidato la pratica Unesco, spiega al Sole 24 Ore che preparare «il dossier costerebbe una cifra oscillante tra 300 e 500 mila euro». Pankiewicz è di un’altra opinione: «Centomila euro sarebbero più che sufficienti. Tatiana Kirova e il professor Raffaele Coppola si sono messi a disposizione per redigere la domanda a costo zero e senza rimborsi spese. La cifra – insiste il professore salentino - andrebbe comunque suddivisa tra i principali Comuni promotori. Lecce potrebbe cavarsela con 10mila euro o poco più».

    Nella querelle salentina c’è chi propende per la tesi di Vittorio Sgarbi: Lecce e il Salento possono infischiarsene dei riconoscimenti di chicchessia. Eppure, un’azione corale sarebbe una prova di maturità. Nell’attesa che qualcuno si faccia avanti, a muoversi è stato il prefetto Claudio Palomba, arrivato a Lecce da Rimini, che ha convocato i 97 sindaci del Salento per concertare politiche comuni in materia turistica. Il ruolo di supplenza del prefetto va nella stessa direzione indicata dall’Unesco: o si lavora insieme su progetti condivisi o tutto sarà lasciato al caso

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