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Bancari, dall’Abi aperture al dialogo sul contratto unico

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Bancari, dall’Abi aperture al dialogo sul contratto unico

Gli autonomi della Fabi alzano la palla della riapertura del dibattito sul contratto nazionale dei bancari. Il segretario generale, Lando Maria Sileoni, ieri alla convention “Behind the lines” ha detto: «É necessario riaprire subito il dibattito sul contratto nazionale dei 311mila lavoratori bancari. Quello attuale, in scadenza a fine 2018, rischia di essere superato dai tempi». Abi non lascia cadere la palla. Il presidente, Antonio Patuelli, risponde di non aver «alcun pregiudizio a iniziare da subito un confronto costruttivo in prospettiva di un nuovo contratto, che non sia solo l’aggiornamento del contratto nazionale dei bancari, ma che può allargare lo sguardo». A cosa? Bcc? Assicurazioni? «Se le banche cooperative lo chiederanno, non avrò difficoltà ad approfondire un unico contratto nazionale di tutti i bancari», dice Patuelli. E poi: «Ci sono i settori parabancari, esterni al mondo bancario in termini stretti, come le assicurazioni e il mondo finanziario. Io coniugo il mondo finanziario in termini plurali». «Non c’è un unico modello, ce ne sono tanti, diversi e in concorrenza. Questa è la base di pluralismo che rende competitivo il nostro mondo bancario».

Mancano quasi due anni alla scadenza del contratto dei bancari (l’ultimo è stato siglato il primo aprile del 2015) ma già le parti sentono il bisogno di parlarsi. Non che le occasioni siano mancate: ci sono i cantieri del precedente contratto, c’è stato l’accordo sulle pressioni commerciali, c’è stato il lavoro di diplomazia per la dote di 648 milioni prevista dalla legge di Bilancio per aiutare il settore nella sua fase di forte riorganizzazione e agevolare quasi 25mila uscite con il fondo. Ma come spiega il presidente del Casl di Abi e coo di Intesa Sanpaolo, Eliano Omar Lodesani, «il dialogo deve essere continuo per stemperare le tensioni che sono frutto del tempo compresso». Quando si parte allora? «Ci sono ancora alcune cose da mettere a punto del precedente contratto e poi si può partire», dice Lodesani. Quindi a breve.

Ma chi parte? Per ora è la Fabi a portarsi avanti pubblicamente ma nelle diverse sigle il dibattito c’è. E c’è perché, spiega Sileoni, «non ce la facciamo più a rincorrere le aziende che hanno necessità di riorganizzarsi per stare sul mercato». E dall’altro lato, aggiunge, «non vogliamo fare accordi in deroga al contratto nazionale». Gli ultimi mesi per i sindacati bancari sono stati caratterizzati più che da stabilità e quadro certo, da profondi scossoni. Secondo i dati raccolti dalla Fabi dal 2013 al 2015 sono usciti, attraverso pensionamenti e prepensionamenti 32.096 dipendenti, ma sono stati assunti 21.574 giovani, di cui più della metà, 12.240, attraverso il Fondo per la nuova occupazione. Il bilancio è negativo. «I bancari diventeranno prima 290mila, poi 280mila poi 270mila e così via se non si inverte la rotta», avverte Sileoni.

Le due strade percorse finora sono state le uscite volontarie con il fondo di solidarietà di cui Sileoni difende il valore politico e le riqualificazioni che, a conti fatti, se si esclude il grande piano di Intesa Sanpaolo che ha riqualificato oltre 5mila lavoratori, non sono state una scelta prioritaria. E invece il sindacato chiede di riportare o tenere all’interno le attività: il recupero crediti è un esempio. O di guardare ad accordo come quello sul contratto ibrido, introdotto in via sperimentale da Intesa Sanpaolo. «Pensate al valore aggiunto che porta un contratto che permette a chi lo vuole di provare a mettersi in gioco con un’attività nuova essendo dipendente della banca ma anche promotore finanziario. E poi valorizziamo anche il fatto che è un accordo che porta occupazione», dice Lodesani. In mezzo a tutti gli accordi difensivi del credito, ci sono degli esempi che mostrano che si può anche creare occupazione con accordi innovativi e ragionando sui nuovi mestieri. Per farlo a livello di sistema bisogna però rimettersi attorno al tavolo nazionale. Non per parlare di ammortizzatori che per Lodesani «sono un aspetto patologico», ma «per iniziare a fare un’analisi dei bisogni delle aziende e dei lavoratori».

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