Economia

Il caso Ferrero: se il made in Italy non è solo una preda

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L'Analisi|l’analisi

Il caso Ferrero: se il made in Italy non è solo una preda

Superare il limite dei 10 miliardi di euro di fatturato consolidato. Infrangendo il tabù del capitalismo familiare italiano, che di solito a un passo dal raggiungere una simile soglia dimensionale vende tutto e monetizza oppure modifica gli assetti proprietari, anche a costo di perdere – domani o dopodomani, poco importa – il controllo della propria creatura industriale. Entrare nel mercato americano con i prodotti icona – dalla Nutella ai Mon Chéry, dagli Ovetti Kinder ai Ferrero Rocher – che rappresentano una sorta di Autobiografia – dolce e redditizia – della Nazione. L’acquisizione di Fannie May – la quarta in due anni, una operazione da 115 milioni di dollari dalla produzione e dalla vendita di cioccolata, una ottantina di punti vendita concentrati nel Midwest – ha questa doppia valenza. Permette alla Ferrero International – il gruppo, nelle sue ramificazioni societarie e nella sua geografia da tempo non limitata alla sola Alba – di oltrepassare i 10 miliardi di euro di ricavi, un tetto formalmente non valicato nell’ultimo bilancio perché, per una ragione tecnica, l’acquisizione nel 2015 del produttore di cioccolato inglese Thorntons (una rete diretta di 242 negozi) era stata consolidata soltanto nello stato patrimoniale. E consente alla Ferrero – come impresa in sé e per sé, al di là delle diramazioni societarie – di aggiungersi alle altre quindici realtà italiane che, secondo l’ufficio studi di Mediobanca, hanno un fatturato annuo superiore ai 10 miliardi di euro. La nostra economia non si è mai ripresa dalla fine del paradigma della grande impresa, coincisa all'inizio degli anni Novanta con la caduta dell’Iri e con la ritirata dell’imprenditoria privata del Novecento. E le (poche) aziende che oggi superano questa soglia – materiale e psicologica – sono in prevalenza di matrice ex pubblica: Telecom, Finmeccanica, Eni, Saipem, Enel e imprese di questi gruppi. Il capitalismo familiare ammesso a questo club si limitava finora agli Agnelli-Elkann di Exor-Fca e ai Benetton di Edizione Holding. Adesso, ci sono anche i Ferrero.

Dunque, in una imprenditoria italiana che ha un problema evidente con le crisi di crescita, la Ferrero rappresenta una eccezione virtuosa. Prima di tutto nel mantenimento del controllo da parte della famiglia fondatrice. E in pochi ci avrebbero scommesso, dopo la morte prima di Pietro Ferrero (all’età di 48 anni, il 18 aprile 2011) e poi di suo padre Michele Ferrero (a 90 anni, il 14 febbraio 2015). In secondo luogo, rappresenta una eccezione virtuosa nello sviluppo di una strategia mixata di consolidamento per linee interne e di espansione per linee esterne, tramite operazioni graduali e oculate. Che dimostrano un gusto per gli affari non pantagruelico. Con un gruppo di manager guidato da Giovanni Ferrero, fratello minore di Pietro, che ascolta ancora i consigli della Signora Maria Franca, la moglie di Michele.

Ci sono stati investimenti continui nelle fabbriche (nel 2011-2012 quelli in immobilizzazioni materiali ammontavano a 400 milioni di euro, tre esercizi dopo sono saliti a 556 milioni). Nel suo profilo tecno-industriale e commercial-logistico la Ferrero ha assunto le sembianze più efficienti della globalizzazione, trasformandosi in una sorta di mini catena globale del valore, grazie all’acquisizione del produttore di nocciole turco Oltan nel 2014: il gruppo italiano copre tutte le parti in cui è scomponibile e ricomponibile la Global Value Chains di questo segmento dell’alimentare, dalla materia prima – controlla così l'incognita dei prezzi – alla loro trasformazione, dai brevetti alla commercializzazione finale. Questo stile di impresa onnicomprensivo – secondo la riclassificazione dei bilanci effettuata da R&S Mediobanca – ha portato a ottenere, fra il 2010-2011 e il 2014-15, utili netti cumulati pari a 2,84 miliardi di euro. Inoltre, nello stesso lasso di tempo il valore aggiunto è salito da 2,4 miliardi a 2,9 miliardi di euro. Bene la strategia di espansione graduale e bene il controllo dei diritti di proprietà.

Adesso, però, il gruppo è chiamato ad affrontare il nodo della finanza di impresa. Secondo R&S Mediobanca, a livello di consolidato del Gruppo Ferrero International il capitale netto dal 2011 al 2015 è sceso da 2,7 miliardi di euro a 2,1 miliardi di euro (in particolare per la flessione delle riserve) e il totale dei debiti è salito dai 2,2 miliardi di euro del 2011 ai 5,4 miliardi di euro del 2015. Tutto questo mostra come un gruppo sano e in espansione come Ferrero potrebbe – in condizioni naturalmente di fisiologia, non di patologia - confrontarsi con il tema del capitale, dopo essersi misurato con successo con la dimensione industriale e commerciale, tecnologica e distributiva. Potrebbe continuare a non giudicarlo un problema proseguendo in una sviluppo misurato e per stratificazione. Oppure potrebbe ritenerlo una opportunità, prendendo dunque in considerazione le opzioni – dalle quotazioni in Borsa alle aggregazioni fra pari, dai takeover sui concorrenti alle offerte provenienti da essi – che, fino a quota 10 miliardi di euro di ricavi, sono state sempre accantonate.

In ogni caso, il tema della leva finanziaria – e della governance manageriale che dovrebbe rinnovarsi nel caso che fosse adoperata – esiste. Qualunque progetto strategico verrà attuato, l’elemento interessante della traiettoria di questa impresa – da Alba a Montecarlo, dal Lussemburgo all’Inghilterra, dalla Turchia al Midwest – è rappresentato prima di tutto dalla identità dei Ferrero imprenditori. Colpiti dai lutti che recidono i legami familiari. Uniti alla comunità e alla fabbrica. Ossessionati dal prodotto. Felici di bere il barolo chinato in Piazza del Duomo ad Alba e tranquilli – senza ostentazioni – sugli elicotteri. Con uno sguardo interessato, ma furbo e distaccato, per i soloni delle banche d’affari e delle società di consulenza che farebbero carte false per essere ingaggiati da loro e dalla loro azienda.

È qualcosa di molto novecentesco, che mostra in filigrana il profilo del vecchio Michele, uno degli imprenditori geniali e perseveranti che hanno scritto il romanzo della nostra industria, un uomo allo stesso tempo delle Langhe e dei mercati internazionali. In fondo, qualcosa di molto italiano.

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