Economia

Non solo Tap, sono 342 le opere ferme per le proteste di piazza

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sviluppo bloccato

Non solo Tap, sono 342 le opere ferme per le proteste di piazza

(Ansa)
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L’ultimo caso è freschissimo. Risale a ieri. La multinazionale britannica Rockhopper, ha avviato le procedure per rivalersi economicamente nei confronti dell’Italia. Motivo: l’impossibilità di sfruttare il giacimento di Ombrina Mare, in Abruzzo, di cui era titolare. Un giacimento a 6 km dalla costa, finito nel mirino dei “no triv” e del provvedimento del governo di fine 2015 che vietava lo sfruttamento di giacimenti entro le 12 miglia marine.

Ora la compagnia Rockhopper presenta il conto: la richiesta di risarcimento contro il Governo italiano, per violazione del trattato Energy Charter Treaty, potrebbe essere di molti milioni di dollari (si veda il Sole 24 Ore di ieri).

Il caso Ombrina Mare fa parte dei 342 casi di sviluppo bloccato censiti dal rapporto annuale 2016 (a valere sul 2015) dell’Osservatorio Nimby forum. La multinazionale Rockhopper è in buona compagnia, con la Tap (Trans adriatic pipeline) tornata agli onori delle cronache in questi giorni, o la Tav Torino-Lione, o ancora la rete ad alta tensione in Val Formazza (Verbano Cusio Ossola) per l’interconnessione con la Svizzera: un’altra opera strategica che coinvolge anche le province di Novara e Milano.

I PROGETTI BLOCCATI
Numero di impianti per settore industriale (Fonte: Nimby Forum)

Questi tre progetti sono tra i più osteggiati, secondo il monitoraggio del Nimby Forum, insieme all’impianto di co-incenerimento di rifiuti non pericolosi Terni Biomassa, di Terni, e al permesso di ricerca per idrocarburi liquidi e gassosi denominato “Monte Cavallo”, di Shell Italia, in un’area che ricade tra Campania e Basilicata.

L’ultimo Osservatorio Nimby Forum ha censito 13 casi di sviluppo bloccato in meno rispetto al rapporto precedente. Ma non c’è da rallegrarsi.

Innanzitutto perché «il calo riscontrato è del tutto risibile» spiega Alessandro Beulcke, presidente dell’Osservatorio. E poi perché il calo è probabilmente ascrivibile «al progressivo abbandono dei progetti da parte delle imprese proponenti, che dirottano investimenti e risorse verso altre iniziative industriali, spesso fuori dai confini italiani» si legge nel rapporto.

Del resto lo scenario è disarmante, come sottolinea Beulcke. «Ricordo il caso della Shell a Priolo: solo per la presentazione del progetto e le procedure sull’impatto ambientale la multinazionale spese una trentina di milioni». Insieme a Shell anche Erg lancia la spugna e sfuma così un piano di investimenti di circa mezzo miliardo. E quello di Priolo non è neppure il caso più clamoroso: cinque anni fa, nel marzo 2012, proprio al Sole 24 Ore British Gas annuncia l’addio all’Italia e al progetto di rigassificatore a Brindisi. Troppi undici anni di lungaggini e una spesa di 250 milioni per nulla. Addio a un progetto da 800 milioni e a 1.100 occupati.

«Altrove, come in Francia ad esempio, le procedure durano 6-8 mesi, da noi invece servono anni – conferma Alessandro Beulcke –: un’azienda pensa di ottenere risposte sulle valutazioni ambientali entro 180 giorni (come dovrebbe essere), invece l’iter diventa spesso di 360 o più. E poi sono quasi automatici i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato da parte degli oppositori». Ricorsi che spesso finiscono in niente – come le decine contro le richieste di ricerche sugli idrocarburi, rigettate nei mesi scorsi –: «Si tratta sovente – sottolinea il presidente dell’Osservatorio – di ricorsi temerari che, però, non vengono sanzionati».

A sollevare le maggiori opposizioni sono soprattutto i progetti energetici (196 casi), poi la gestione dei rifiuti (130 tra discariche e termovalorizzatori), quindi le infrastrutture (strade e ferrovie). Un primato tutto italiano frutto di «lungaggini buracratiche, complicazioni politiche e un uso distorto delle informazioni, con una critica che raramente è costruttiva» spiega Beulcke. Il risultato di questo mix è che la politica spesso sceglie, soprattutto sui territori, di «assecondare la protesta. Mentre sulle opere strategiche dovrebbe decidere solamente il governo centrale. Il caso Tap è emblematico e oltretutto si parla di lavori di una banalità ingegneristica sconvolgente. Dall’effetto Nimby – sottolinea Alessandro Belcke – si sta passato al Nimto: not in my terms of office, non nel mio mandato».

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